il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2024
Io e la musica, così ho tentato di vivere i misteri della notte
All’età di quindici anni circa entrai nella scuola per aspiranti musicanti del locale corpo musicale. A spingermi non fu la percezione di essere particolarmente dotato per quest’arte, anzi: l’esperienza, che ebbe la durata di un annetto, mese più mese meno, servì a dimostrarmi l’esatto contrario e a convincermi a desistere prima che altri me lo dicessero a chiare lettere. A spingermi a un tale passo, l’iscrizione alla scuola intendo, fu piuttosto il fatto che le lezioni, bisettimanali, si tenevano alla sera e mi avrebbero permesso di uscire la sera e conoscere da protagonista il buio di quelle ore che fino a quel momento avevo perlopiù scrutato da dietro i vetri della mia camera. In quanto a ciò dovevo recuperare molto terreno rispetto a parecchi tra i miei coetanei per una ragione squisitamente logistica. Mentre costoro infatti nella maggior parte dei casi abitavano nel cuore vivo del paese, io stavo ai suoi estremi confini: situazione, questa, non priva di impagabili vantaggi ma che a questi pagava il dazio del suo “splendido isolamento”.
In altre parole, se i miei compagni di classe potevano tranquillamente uscire da casa anche la sera per ritrovarsi nella corte sottostante o in piazza o addirittura, i più fortunati, presso i giardini accanto al fiume, e magari trastullarsi con le prime sigarette fumate di nascosto, a me toccava esibire un motivo valido, oserei quasi dire da adulto, che non avesse il benché minimo sapore ludico poiché per il gioco c’erano le ore del giorno. Ecco quindi come, scovato infine il viatico per uscire, cominciai a inoltrarmi due volte alla settimana nei misteri della notte. Che poi della notte e dei suoi misteri colsi ben poco, ammesso che ce ne fossero da cercare e trovare. Già il fatto di poter dire in casa, “Vado” senza sentirsi chiedere come, dove e perché, era appagante. E miei passi solitari lungo il tragitto che da casa portava alla sede del corpo musicale erano sufficiente motivo d’orgoglio così che, quando entravo nel locale dove gli altri, allievi e no, già sparacchiavano note in aria, si liberava nel mio intimo in forma di un lungo respiro di sollievo come se avessi compiuto chissà quale impresa. Ma l’impresa era tutta lì, in quelle due ore in cui, sera dopo sera, si palesava la mia estraneità al mondo delle sette note mentre non maturava affatto la consapevolezza che sarebbe stato meglio salutare, ringraziare e dimettermi all’istante. Già, il mio orecchio, per quanto non musicale, si era lasciato attrarre dall’aspetto mondano, se così lo posso definire, del far parte del corpo musicale: la divisa, quale simbolo di appartenenza a un gruppo conoscendone usi e costumi, e, vanitas vanitatum!, l’esibizione in pubblico, sorta di promozione verso un più alto livello di considerazione sociale. Riguardo alla già dichiarata, e via via sempre più evidente, inabilità di stare al passo con tempi e ritmi di marce e marcette, misi in campo un accorgimento da ignavo, negando anche a me stesso codesta deficienza, e smaccatamente fingendo di obbedire a ciò che il pentagramma mi chiedeva. Ora, non fa conto di dilungarsi troppo sulle esperienze intermedie che segnarono quell’anno da aspirante musicante prima e poi da, seppur tarato, effettivo: furono momenti di dileggio auto inflitto che hanno trovato spazio altrove e che, una dopo l’altra, portarono a uno dei momenti più attesi nella vita del corpo musicale, la celebrazione di se stesso: in poche parole il giorno della santa patrona, Cecilia. Per l’occasione era in programma, dopo una sfilata per le vie del borgo, il pranzo comunitario presso un ristorante locale.
Noi giovani, gli ultimi arrivati, venimmo confinati in un tavolo che ci raccolse tutti: non credo che ci fosse l’intenzione di fare di noi una sorta di ghetto, il contrario piuttosto, favorire il sorgere di legami più stretti grazie alla convivialità, forgiare eredi per il futuro della banda. Dalla mia posizione avevo sott’occhio l’uscita dalle cucine e fin dagli antipasti mi avvidi che il cameriere destinato alla nostra tavola era soggetto a vessazioni da parte degli altri, più giovani oltretutto: sberlette all’occipite, sonore pacche sulla schiena benché avesse già in mano i vassoi, simulazioni di sgambetti che in un caso andarono quasi a buon fine. Da parte sua, nessuna reazione, nemmeno quando lo richiamavano con un fischio, tant’è che non ne saprei dire il nome. L’osservarlo accettare quello stato di cose fece planare sul tavolo un irrimediabile velo di tristezza, la consapevolezza che esistono vite obbligate a chinare il capo per la necessità del bisogno quale doveva probabilmente essere quella del cameriere che continuò serio e silenzioso a subire piccole ingiurie e a servire il nostro tavolo. Ma ormai l’avevo messo nel mirino, non ne perdevo una mossa fino a quando, terminato il pranzo tra brindisi e discorsi, lasciammo il ristorante. Io per ultimo, essendomi attardato nel luogo comodo, e avviandomi giusto in tempo per vedere quel cameriere destinato, solo, a sparecchiare i tavoli e, credendosi non visto, a svuotare uno dopo l’altro i bicchieri dentro i quali i commensali avevano lasciato avanzi di vino o spumante.