la Repubblica, 24 luglio 2024
Intervista ad Amos Gitai
Why War è il nuovo film del regista Amos Gitai, selezionato alla Mostra del Cinema di Venezia e che sarà presentato in una proiezione speciale nell’ambito della selezione ufficiale. Il regista ci ha parlato in anteprima del libero adattamento di Perché la guerra?, una raccolta delle corrispondenze tra Albert Einstein e Sigmund Freud uscita nel 1933 mentre l’Europa già ballava sul precipizio.
Come ha scoperto questo libro?
«Quando c’è stato l’attentato del 7 ottobre, ho voluto leggere e rileggere alcuni testi per cercare aiuto e conforto nelle riflessionidegli intellettuali. E in questa ricerca questo libro è stato una rivelazione. Tra il 1931 e il 1932 la Società delle Nazioni, che ha preceduto la creazione dell’Onu, chiese a Einstein di scegliere un intellettuale con cui discutere una questione. Einstein scelse Freud. La domanda attorno alla quale si ritrovarono queste due grandi menti fu: perché la guerra? Perché le persone si fanno la guerra tra loro?».
Una domanda più che mai attuale.
«Non siamo condannati alla guerra e alla violenza, anzi. Ma è vero che è la soluzione più facile e allo stesso tempo la più terribile. Quando mi sono occupato dell’assassinio di Rabin, questo era già il nocciolo di ciò che cercavo di capire.
Questo libro, che raccoglie lacorrispondenza tra Einstein e Freud, prosegue la mia ricerca su come si possano evitare i conflitti armati, su come sia possibile trovare soluzioni pacifiche per conciliare posizioni distanti. Intorno a questo straordinario dialogo tra due intellettuali geniali ho costruito un film poetico in cui la guerra non si vede mai».
Non mostra immagini di violenza?
«No, l’idea è di fare un film narrativo senza vedere la guerra.
Mi sono basato anche su un testo di Virginia Woolf, Le tre ghinee,in cui indaga i rapporti di dominio nella sessualità, a cui risponde un altro saggio di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri,che parla anche dell’iconografia della guerra.
Oggi basta accendere la televisione per essere travolti da immagini terribili delle donne israeliane violentate da Hamas, della distruzione dei villaggi palestinesi a Gaza. È un’iconografia che amplifica proprio la guerra. Se sono un cittadino israeliano e vedo quello che è successo ad alcune donne il 7 ottobre, è quasi naturale pensare alla vendetta con la guerra. E allo stesso modo, se sono un palestinese e vedo i miei cari morire sotto i bombardamenti, proverò lostesso sentimento di vendetta e di odio che porta ai conflitti armati».
Che significato ha questa scelta narrativa?
«Molto cinema ha già raccontato la guerra e continua a farlo. Io ho voluto affrontare un’altra sfida, esplorare un altro approccio narrativo, avendo la fortuna di questi magnifici testi e di un castformidabile che dà voce e presenza a questa riflessione: Mathieu Amalric interpreta Freud mentre Micha Lescot è Einstein. Nel film c’è anche Irène Jacob e la partecipazione di Yael Abecassis e Keren Mor, e molti altri con cui lavoro abitualmente. Abbiamo girato tra Israele, Berlino e Parigi».
E alla fine, c’è una risposta?
«Einstein ha una visione marxista, con l’idea che in epoca moderna l’industria bellica condizioni le società. La visione di Freud si basa invece sul contrasto tra Eros e Thanatos, pulsioni tra creazione e distruzione. Non esiste quindi una risposta univoca. Ognuna di queste menti brillanti porta il proprio contributo per cercare di capire perché noi esseri umani continuiamo a fabbricare guerre in cui sappiamo che potremmo morire, noi e i nostri cari. E anche se personalmente sono partito dal conflitto israelo-palestinese, il film si muove verso una riflessione universale che potrebbe essere applicata alla guerra tra Russia e Ucraina, a quanto sta accadendo in Sudan. Purtroppo gli esempi non mancano».
È un film militante e impegnato?
«C’è il mio bagaglio personale, umano. Ho vissuto accanto adivisioni etniche, religiose e politiche, cercando sempre di non farmi travolgere. E per me il cinema ha una missione civile, anche se non ho mai fatto nessuna scuola per diventare regista perché mi sono formato come architetto. Ed è questo che cerco di portare nella mia cinematografia. Viviamo in un mondo in cui il dialogo è diventato sempre più complicato e questo favorisce le posizioni estreme, come vediamo anche in Europa, dalla Francia all’Italia. E penso che l’arte sia il modo di costruire ponti per far incontrare le persone, creando spazi di incontro come sono riusciti a fare maestri del neorealismo italiano, penso ad esempio a Rossellini. Quindi non è un film che vuole dare una risposta, mafar sì che tutti noi ci interroghiamo. D’altra parte, per me un film inizia quando la proiezione è finita».
Parla del valore del dialogo che lei ha sempre difeso?
«Noi registi, ma tutti gli artisti in generale credo, non dobbiamo rassegnarci alle divisioni. Alla vigilia del 7 ottobre sapevo che in Israele eravamo in una situazione esplosiva, ma questa consapevolezza non ha attutito il trauma per chi, come me, da tempo cerca di far dialogare israeliani e palestinesi attraverso l’arte. È quello che faccio da anni nei miei spettacoli teatrali e nei miei film. In Africa il ruolo tradizionale degli artisti era quello di guaritori. Guarire le anime. Ecco, questo è ciò a cui penso che l’arte debba tendere».