La Stampa, 23 luglio 2024
Intervista a Marco Ligabue
Nel pieno della pandemia, bloccato in casa senza un palco sul quale salire (l’anno scorso, per dire, ha fatto 94 serate), Marco Ligabue ha scritto un libro sulla sua vita. Come titolo, ha scelto la frase che più spesso si è sentito rivolgere: «Salutami tuo fratello». Suo fratello naturalmente è Luciano, di dieci anni più grande (è nato nel 1960, mentre lui è del ’70): Marco è un fratello minore che fa più o meno lo stesso mestiere del maggiore, che incidentalmente quel mestiere lo pratica da più di tre decenni con enorme successo.
Il suo libro è coraggioso, non nasconde le perplessità e pure le critiche delle persone a lei vicine, quando decide – a 40 anni – di mettersi pure lei a cantare.
«Nel libro mi è piaciuto mettere le parti divertenti, ma anche quelle più dure, più toste, forse più vere. Gli ostacoli che ho incontrato, e anche i pregiudizi, le perplessità. In realtà credo di aver fatto un percorso lineare: dai 20 ai 30 anni avevo una band di puro rock’n’roll, ci importava solo di essere i primi ad arrivare nei locali e gli ultimi ad andare via, senza troppe ambizioni musicali, che mi sono arrivate verso i 30, quando ho fondato i Rio, per cui scrivevo i pezzi e suonavo la chitarra».
Luciano, intanto...
«Diventava sempre più famoso, importante, sempre più bravo: fare il salto e mettermi a cantare mi sembrava una barriera insormontabile. Poi mi sono arrivate canzoni di un altro tipo, e questo mi ha dato la spinta. Sembrava un po’ folle: hai 40 anni, sei il fratello del Liga, ti metti a cantare adesso? Ho fatto scegliere la musica, e la musica mi diceva: è arrivato il momento di metterci la faccia. E la voce».
A sua discolpa, diciamo che nella vostra famiglia la musica ha avuto un posto importante.
«I nostri genitori amavano la musica, ma sono cresciuti nel dopoguerra, non avevano le possibilità economiche per sviluppare la loro passione. Hanno fatto la loro vita, comunque bellissima, e negli Anni ’80 sono riusciti a diventare soci di una balera vicino a Correggio. Il sabato c’era liscio, ma durante la settimana passavano Ivan Graziani, Riccardo Fogli, l’Equipe 84, perfino Luciano Pavarotti. Io e Luciano siamo cresciuti lì: affascinati dalla musica, dal palco, dai microfoni, dagli strumenti».
Quando è scoccata la scintilla?
«Intorno ai 15 anni ho preso in mano la chitarra acustica di mio fratello e un canzoniere un po’ impolverato che lui aveva usato anni prima. Ho provato i primi accordi, le prime diteggiature, ho capito che in poco tempo si poteva imparare qualche accordo e cantare le grandi canzoni di De Gregori, De Andrè, Rino Gaetano, Vecchioni, Venditti, Dalla... E ho cominciato a mettere a fuoco anche le parole. Ancora oggi, ciò a cui tengo di più sono i testi. Sono parole scolpite nella pietra. Una melodia, un arrangiamento li potrai sempre cambiare, il testo no».
Una certa importanza deve averla avuta anche Correggio, l’Emilia di quegli anni.
«Allora in Emilia suonavano tutti, ogni gruppo di amici aveva la sua band di riferimento, tra feste di paese, feste dell’Unità, feste della birra c’era sempre la scusa buona per fare un concerto. Ci sentivamo gli americani d’Italia».
L’8 febbraio 1987 al primo concerto di suo fratello, al Centro culturale Lucio Lombardo Radice di Correggio, c’era anche lei. È vero che non aveva mai sentito prima quelle canzoni?
«Luciano è sempre stato riservatissimo, in famiglia lo sentivamo canticchiare nella sua cameretta con la chitarra acustica, ma delle canzoni che stava scrivendo non ci aveva mai fatto sapere niente. Lui è andato sul palco con un carisma da rocker, io mi sono detto: ma è mio fratello questo? Quello un po’ timido, introverso, che vedo tutti i giorni a casa? Poi ha cominciato a cantare canzoni bellissime, Sogni di rock’n’roll! C’era qualcosa di grosso, di importante. Lo capii da subito, e feci a me stesso un giuramento: lo avrei aiutato il più possibile».
Ha immaginato qualcosa di ciò che sarebbe successo?
«No, però gli domandai subito quando avrebbe fatto il prossimo concerto... Era una sensazione non solo mia, eravamo tutti curiosi: ok, Luciano è partito, ma dove ci porta questa avventura?».
Ha da poco realizzato il video di Anima in fiamme allo stadio Olimpico Grande Torino. C’è una storia dietro?
«Certo. Sono tifoso del Toro dalla prima elementare, che per me ha coinciso con lo scudetto del ’76. Ho scritto Anima in fiamme come un pro-memoria, per tenere accesa quella scintilla di emotività, di passione, di fuoco che abbiamo dentro e che oggi è difficile difendere, in un mondo che ci spinge ad adeguarci a tutto, anche a ciò che non ci piace. Il calcio, come la musica, in particolare il Toro, è una delle passioni che mi fanno vivere, non sopravvivere. È stato bellissimo fare il video, mi sembrava di essere nel campetto dell’oratorio quando sognavo Pulici, Graziani, Claudio Sala».
E con Luciano come va? Mai uno scontro?
«Lo so che fa specie, ma andare d’accordo tra fratelli dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. Io non ho mai visto Luciano come un ostacolo, ancora oggi collaboro con lui cercando di essergli utile, come promisi a me stesso in quel febbraio ’87. Penso ancora che Luciano meriti il meglio, lui mi sostiene a modo suo, tutte le domeniche se possiamo ci ritroviamo da nostra mamma Rina. Mi sembra la cosa più normale del mondo, però ammetto che siamo stati bravi. Lui con il successo poteva cambiare e non l’ha fatto, io non ho mai provato gelosie o invidie. E forse il segreto è tutto qui». —