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 2024  luglio 23 Martedì calendario

Intervista a Maurizio Arrivabene

La «sua» Ferrari è stata l’ultima a lottare per il titolo, Vettel nel 2017 era arrivato a Monza in testa al campionato. Maurizio Arrivabene, ex team principal della Scuderia, ex ad della Juve, una lunga carriera alla Philip Morris. A quale di queste tre esperienze si sente più legato?
«Ognuna di queste è stata importante, nulla mi è stato regalato e ho conquistato tutto con il lavoro. Vengo da una famiglia normalissima. Dopo una pausa post-Juventus mi sto occupando di marketing digitale in società con un amico ex Philip Morris e una bravissima collega. Rivivo lo stesso spirito di quando ero a Losanna, l’orgoglio di essere italiano e di portare idee in giro per il mondo. In Svizzera avevo conosciuto Marchionne, gli dissi che avrei voluto fare qualcosa per il mio Paese».
Com’era lavorare con Marchionne?
«Un pilota militare ha descritto così il decollo dalla portaerei: “Fare l’amore e sbattere contro un muro a 150 all’ora, tutto insieme”. Era così, emozioni forti. Ma con il passare degli anni ti rendi conto di essere stato accanto a un grande uomo. Aveva un carattere durissimo ma mi ha insegnato e lasciato molto». 
Cosa vuol dire «durissimo»?
«Pretendeva tantissimo da se stesso e dagli altri. Era normale ricevere telefonate alle 2 o alle 4 del mattino, magari lui era negli Usa, a me non cambiava molto essendo abituato a dormire poco. Ho imparato a capirlo con il tempo, lui decideva veramente. Oggi invece vedo tanti manager di alto livello che hanno difficoltà a scegliere e non si assumono rischi. Così si evita di decidere demandando ai superiori, soltanto per mantenere la propria poltrona. In Philip Morris ci insegnavano a rischiare, a cercare strade nuove, se sbagliavi dovevi assumerti la responsabilità: in Ferrari lo facevo sempre».
In che modo?
«Un capo deve metterci la faccia, andavo sempre davanti alle telecamere. Mi viene da ridere quando sento concetti del tipo “mettiamo le persone al centro dell’azienda”: significa far comandare una élite e delegare il resto all’ufficio del personale. Io mandavo sul podio dagli ingegneri ai meccanici, le persone “invisibili”, mi dispiace non aver potuto continuare. Alla Juve ho voluto conoscere tutti i livelli, incontri a piccoli gruppi: dialogando scopri interessi e potenzialità umane, uno può funzionare meglio in un’area piuttosto che in un’altra».
Vale anche per i piloti? Leclerc non vive un momento felice.
«I piloti vivono di alti e bassi. In Charles ho creduto sin dal primo giorno: prima di essere inserito nell’Academy si era presentato in ufficio impressionandomi. Non abbassava lo sguardo, mi fissava dritto negli occhi. Da quell’incontro mi sono convinto a prenderlo. Un vecchio maestro in F1 mi aveva detto che un campione si riconosce da come ti guarda. Mi stupì ancora quando, poco dopo la morte del padre, salì sul volo della squadra per la gara di F2. Gli chiesi: “Charles, che ci fai qui?”. E lui: “C’è una corsa, voglio vincerla per mio padre”. E vinse».
Solo una crisi passeggera?
«Nessuna crisi, ma un momento di scoramento. Ha bisogno di essere stimolato e capito. Deve avere persone accanto che sappiano tirare fuori il meglio da lui. Se uno ha stoffa non la perde d’improvviso».
E Sainz?
«Lo conosco poco, con il papà ci eravamo parlati e lui ha sempre creduto nel figlio. Ci sono genitori che aiutano, come lui, e altri che creano problemi».
Per esempio?
«Spesso, durante le partite delle giovanili, e capita ovunque, si vedono diversi genitori gridare contro gli avversari. C’erano dei camper fuori dal centro di Vinovo della Juve, ci vivevano alcune famiglie che avevano lasciato il lavoro per seguire i propri figli, per loro erano talenti certi. Veramente diseducativo, mancano sorrisi e spensieratezza. Ai miei tempi gli osservatori giravano per oratori o nei più laici “campetti”, era un calcio più felice. Se eri scarso non ti gettavano la croce addosso, ai campetti si andava in bici, le squadre si formavano scegliendosi a turno mischiando quelli forti a quelli che lo erano meno, ma una volta fatte le scelte tutti diventavano squadra. Ora fin da bambini tutto è diventato iper professionale con genitori che fanno salti mortali per “scaricare” i figli agli allenamenti: sarebbe meglio una pizza in più con i figli e un allenamento in meno».
La sua esperienza alla Juve è finita male. Quella gestione è stata troppo spregiudicata?
«Premetto che nel periodo in questione io ero nel cda in qualità di consigliere senza deleghe e in un momento in cui a causa del Covid ci si riuniva in videoconferenza. Allora la strategia della società mirava ad una forte espansione iniziata in precedenza con l’acquisto di Ronaldo e l’obiettivo era vincere la Champions ed entrare in modo solido e duraturo tra le grandi d’Europa: di conseguenza sono stati fatti altri acquisti, poi il Covid ha complicato le cose. Ho iniziato il mio lavoro da dirigente il primo luglio 2021 trovando una situazione piuttosto pesante a causa degli investimenti precedenti. Ovviamente la pandemia aveva aumentato i problemi, i costi di contratti molto onerosi avevano creato una situazione piuttosto difficile. Cosa dovevo fare, andare in tv e dire abbiamo sbagliato a spendere troppo? Vi immaginate la reazione di tifosi e media? In silenzio mi sono rimboccato le maniche e ho iniziato a lavorare, quell’anno grazie ad alcune vendite e all’acquisto di soli due giocatori, Locatelli e Kean, facemmo un mercato morigerato subendo anche critiche».
Nell’inchiesta su Juve e plusvalenze siamo arrivati alla richiesta di rinvio a giudizio da parte della Procura di Roma per lei, Agnelli, Paratici e altri 7 indagati: come la vive?
«Le cose vanno avanti. Continuo a credere nella giustizia». 
Anche in quella sportiva?
«Vedremo cosa dirà la Corte Europea». 
Con Andrea Agnelli vi sentite ancora?
«Sì». 
Più difficile lavorare in Ferrari o alla Juve?
«Mi date l’occasione per chiarire la mia esperienza alla Ferrari. Nessuno mi ha cacciato, altrimenti dopo non sarei andato alla Juve. Avevo un contratto di quattro anni e non è stato rinnovato, non abbiamo trovato un accordo. Non ero solo team principal ma anche managing director, deleghe date da Marchionne, la Ferrari era stata da poco quotata e la Scuderia doveva essere il fiore all’occhiello».
Nostalgia della F1?
«Un po’ sì. Guardo le gare e penso: “Avrei fatto così”. I tifosi per strada mi fermano ancora e molti mi ringraziano, ed è la cosa che più mi fa piacere. Mi chiamano “ingegnere” mentre non lo sono affatto. Per fare il team principal devi essere soprattutto un leader, capace di mettere insieme professionalità e personalità diverse. Perché alla fine il team principal conta molto poco nell’esecuzione di un Gp, se scegliesse tutto un uomo solo vedremmo le comiche alla domenica».
Si è parlato di tensioni fra lei e Mattia Binotto. Quella coppia non funzionava?
«Non credo proprio, questa storia è stata alimentata da dentro o da fuori, ognuno di noi aveva il suo ruolo. Ma una coppia ben fatta era Marchionne-Arrivabene».
La Ferrari ha cambiato tanto negli ultimi anni, ma a ogni passaggio si parla di ricostruire, di riorganizzare, di prendere tempo. Perché?
«La Ferrari è il sogno di chiunque. A volte lì dentro la pressione non ti dà tempo, succede tutto talmente in fretta che non si riesce a concludere un progetto in modo naturale. Nel 2015, appena arrivato vincemmo tre gare. L’anno successivo eravamo impegnatissimi a sviluppare la monoposto 2017, arrivammo terzi nei costruttori e leggevamo di “zero tituli”. Marchionne difese la squadra, aveva capito che eravamo in una fase di transizione. E infatti i risultati arrivarono, siamo stati in lotta per il Mondiale nel 2017 e 2018».
Hamilton è la scelta giusta?
«Lewis può aiutare Charles a crescere, il primo avversario di un pilota è il suo compagno. Ma conta di più la macchina che avrà e l’unico fenomeno è Verstappen. Ma neanche lui è in grado di abbassare da solo 2-3 decimi come sento dire».
Meglio la F1 di Ecclestone o di Domenicali?
«Impossibile paragonare due mondi diversi. La F1 attuale deve tanto a Bernie. Non c’è futuro senza un solido passato, Stefano è un ottimo manager ed è stato anche l’unico a vincere un titolo con la Ferrari. La F1 di oggi è uno show globale, in grado di competere con intrattenimento e videogame. Lo dicevo anni fa e mi prendevano in giro».
Della Ferrari di Elkann e Vasseur che pensa?
«Non mi permetto di giudicare il lavoro degli altri. Se dovessi decidere io, mi concentrerei su due fronti: stabilità e spirito di squadra. Chi si sente protetto lavora meglio, un gruppo unito può fare miracoli. Quando vincemmo il primo Gp in Malesia con Vettel, nel 2015, nessuno poteva crederci, a cominciare da me». 
Briatore è tornato, rivedremo anche lei in F1?
«Per ora sono contento di quello che faccio con la mia società. Ho vissuto tante belle emozioni e non amo le luci della ribalta. Mi mancano le persone, quello sì. L’emozione più forte è stata mandare sul podio di Sepang il capomeccanico Modesto Menabue, mi manca l’adrenalina di quei momenti. Quando ottieni un buon risultato e sei felice di vedere i ragazzi felici».
Quale è stata l’emozione sportiva più forte che ha provato nella sua carriera?
«La doppietta Ferrari in Ungheria nel 2017, sapevamo dai primi giri dei problemi di Vettel allo sterzo. Serviva sangue freddo, andavo avanti e indietro dal muretto al box per dare sicurezza ai ragazzi. Anche se tremavano le gambe a tutti, pure a me. Ho chiamato via radio Raikkonen chiedendogli di proteggere Sebastian. Il vero capolavoro lo ha fatto Kimi, quei 70 giri sembravano non finire mai. Avrebbe potuto provare a vincere, invece si è messo al servizio della squadra. Siamo andati in battaglia, dal primo all’ultimo, per dare tutto: questo è l’atteggiamento che piace a me. E a fine gara pochi festeggiamenti: tutto tornava normale e tutti al lavoro. In un mondo di gente che vuole essere speciale per esserlo veramente devi essere normale».