Corriere della Sera, 23 luglio 2024
Nel tritacarne del boom
In quasi trent’anni si compie, con Muster (Zacinto), una trilogia molto particolare: quella che Bruno Pischedda ha inaugurato nel 1996 con Com’è grande la città (Marco Tropea Editore) e proseguito nel 2003 con Carùga blues (Casagrande). La Macondo di Pischedda è la Cesate anni Settanta, una ventina di chilometri a nord-ovest dal centro di Milano: protagonista del primo romanzo (romanzo a suo modo) era un piccolo teppista di periferia diventato letterato molto critico nei confronti degli apocalittici della modernità; con il secondo romanzo, il più politico, si passava a un punto di vista dal basso, quello del Carugati, detto il Carùga, figlio di contadini locali e subito impegnato in collettivi dell’estrema sinistra e poi affiliato (deluso) al mondo socialista; in questo terzo pannello, il narratore-protagonista è Umberto Beretta, detto Peretta, estrazione piccolo-borghese, con madre lavoratrice e padre «inidoneo», mite, scarso di parola. Siamo alle prese con una serialità inconsueta, non disposta in sequenza cronologica con passaggi di testimone coerenti da personaggio a personaggio. Qui la moltitudine si incrocia e si confonde, alcune comparse e figure le ritroviamo a distanza con nomi e ruoli diversi.
Il microcosmo, un laboratorio di amici tipo la Malo di Meneghello, pregno di coloriture dialettali caratterizzanti (qui però plurime), presenta un’umanità non facilmente dimenticabile, «genietti da strada, straccioni, giovinastri per bene e sicofanti telegenici», tutti raccolti tra la muraglia del Palazzone e le casette a schiera del Villaggio Ina disegnato da bravi architetti funzionalisti, fino ai boschi di groane. E spingendosi ancora più a nord, vagabondi verso Solaro, dove si stendono i campi di granoturco e segale, e cominciano a fiorire le fabbrichette dell’alluminio, del cotone, delle vernici.
È un piccolo mondo in bilico tra entusiasmi modernizzatori e abbandono sociale, in perenne relazione di dipendenza anche psicologica rispetto alla adiacente metropoli, tra risse periodiche, faide, accoltellamenti, smobilitazione della atavica tradizione contadina e «nuovi profughi», ovvero lo «scolo migratorio», abusivismo, operaismo, sindacalismo, benessere conquistato coi denti, e mescolamenti verticali e orizzontali, tutti contro tutti: «sardi contro veneti, calabresi contro siciliani, bergamaschi e bresciani della Val Trompia (Beretta) contro pugliesi, abruzzesi, reietti dell’Oltrepò e superstiti del Polesine da poco andato sott’acqua». Una «moltitudine spicciola», di sognatori, velleitari, violenti, deviati, proletari, qualche raro impiegato, vagabondi, cirrotici, spacciatori, biscazzieri, prostitute avventizie, cialtroni, bravi ragazzi e brave ragazze, stonate, illuse, disilluse o ben presenti a sé stesse. Personaggi fantastici come il ragazzetto tisichello Carlotto, che qualcuno diceva «ricchione e in cura dallo psichiatra», ingegnere spaziale in pectore, capace di costruire e lanciare per aria un razzo come fosse un missile. Personaggi fantastici come l’indecifrabile Mirella, famiglia cattolica praticante, con la quale avverrà lo svezzamento sessuale del Peretta, aspirante matematico battezzato da un giorno all’altro Muster, il Mostro, per il bizzarro talento di rimediare figuracce colossali al cospetto del mondo. In particolare la prima, irrimediabile: quando in compagnia del suo solito gruppo e di alcune ragazze appena conosciute, si fissa su Lodovica, la più in disparte, catturato dal suo sguardo «eccentrico e seducente», per farle un complimento: «Hai un leggero strabismo… lo strabismo di Venere…». Non contento, lo ripete e ancora insiste. Finché, nell’imbarazzo incredulo dei più, il Ruspi batte una mano sul tavolo e gli urla «muster, muster, ta set un muster!» (mostro, sei un mostro!). Il presunto «strabismo di Venere» era dovuto a una protesi, ovvero a un occhio di vetro che la ragazza cercava in tutti i modi di celare dietro la tendina di una frangetta nera. «E Muster fu, da allora in poi», con quel soprannome-destino, soprannome-gogna, a indicare «l’individuo anomalo, mai visto, capace di rendere catastrofico anche il gesto più innocuo e benigno, un sorriso, una curiosità velata di prurigine».
Chi ha letto i primi due romanzi di Pischedda sa bene che siamo nel territorio ormai poco frequentato del comico-grottesco all’italiana (Benni ne è stato il rappresentante autorevole), espressività spinta, anche grassa, aliena da qualunque preoccupazione di correttezza politica (si parla di «andare a troie» senza scrupoli moralistici): come si addice alle generazioni d’antan, è un giro essenzialmente maschilista, in cui la donna è ancora pensata come oggetto di conquista proprio mentre si manifestano le prime rivolte femministe.
Destini
Il protagonista Umberto Beretta ha il talento bizzarro di rimediare figuracce colossali
Si ride parecchio anche qui, sin dall’incipit: «Avevo vent’anni, forse neanche, diciannove, diciotto, quando nel parcheggio alberato davanti alla latteria di Scordo qualcuno mi lasciò un dono maleodorante sulla moto (un dono, che implicava un giudizio, o un discorso)». Il romanzo si apre con un tortiglione di merda, deposto da ignoti sulla sella di una Gilera 125 Arcore con serbatoio a goccia. E si sviluppa intorno al locus amoenus o piuttosto desperatus (Michele Mari docet) della latteria in cui l’allegra (disperata) brigata, variamente composta da Leo Luciano Ruspi Momino Tazio Peppo Parma Pablo, oltre al Peretta e a poche ragazze per lo più chiacchierate in paese, si intrattiene fino a notte fonda per cazzeggiare e giocare a ramino, a immaginare avventure e a escogitare di tutto, lecito e illecito non importa. Compreso un traffico collettivo, finito male (in caserma), intorno alla rubinetteria del prete.
È così che da un’adolescenza «povera e impacciata» irradia la giovinezza fantastica che sta nel sottotitolo: la giovinezza offesa del Muster (o Musterone di merda), proseguita disordinatamente in università e infine in un improbabile soggiorno di studio americano. E la giovinezza di tanti altri suoi compagni di avventura o di sventura. Destini imprevedibili che si perdono e si ritrovano nella narrazione. Come quello del Ruspi, sempre pronto, fiero di sé («…varda che roba…»), a tirar fuori dai pantaloni un «uccellone bianchiccio che poi brandiva come un annaffiatoio». Lo stesso Ruspi, detto il quadrumane (si sospettava che avesse braccia talmente lunghe da riuscire a grattarsi le ginocchia senza piegarsi), appassionato di Fabia con cui avrebbe avuto il piccolo (indesiderato) Marcello. Ruspi il bel giovane snello, vagamente somigliante a Alain Delon, destinato a fare il camionista di Gondrand, poi il padroncino, poi il carrozziere a Baggio, poi l’installatore di grondaie… lo ritroveremo sui giornali, capo di rivoltosi, torso nudo e bandana alla fronte, sul tetto di San Vittore.
O la parabola di Tazio, operaio alla Pan d’Or, fabbrica di grissini e altro companatico eretta sul margine estremo del bosco. In quell’unico insediamento produttivo di Cesate, Tazio sarà protagonista sindacale del consiglio di fabbrica, poi autore di una contro-occupazione che avrebbe provocato scontri e intervento della celere con sfollagente, lacrimogeni, sgombero e catene ai cancelli.
Inseguire destini (vicini ai suoi) è l’impegno di Pischedda, destini pressoché invisibili dentro la storia italiana nel passaggio dalla civiltà contadina al boom economico e alla civiltà massificata: quel passaggio che è stato il laboratorio sociale, politico e umano – entusiasmante avvilente omologante – in cui, bene o male, ci siamo formati. Sono i temi studiati dal Pischedda critico letterario.