Corriere della Sera, 23 luglio 2024
Europa, Trump, liti tra alleati Perché (per la prima volta) Giorgia rischia di inciampare
All’improvviso le sorti del governo Meloni non sembrano più così «magnifiche e progressive». Se appena qualche mese fa, prima delle Europee, era lecito dire che le cose non potevano andar meglio per la premier, ora invece è ragionevole prevedere che possano andar peggio.
La prima ragione è internazionale. Don Luigi Sturzo diceva che la politica estera è la chiave della politica interna ed economica, e aveva ragione. Purtroppo si sta esaurendo il bonus di credibilità internazionale che Giorgia Meloni aveva conquistato al suo governo, e che ha finora protetto anche il nostro debito pubblico sui mercati: i quali sono oggettivi sì, ma la politica la capiscono e talvolta la fanno (vedi come trattano la Francia coi guanti bianchi). Il problema non è solo, e forse neanche tanto, aver votato con Orbán e Le Pen contro Ursula nell’Europarlamento (anche se si poteva gestire meglio la cosa almeno in Consiglio, un capo di governo italiano che si astiene sul presidente della Commissione non s’era mai visto). Né si deve ora ingenuamente prevedere chissà che ritorsioni da Bruxelles nella composizione della Commissione o nelle procedure ai danni dell’Italia, che resta il terzo Grande d’Europa e la seconda potenza manifatturiera. Ma è la dinamica stessa degli eventi che lavora per restringere quel ruolo di cerniera tra sovranismo e atlantismo, tra interesse nazionale e solidarietà europea che Giorgia era riuscita a ritagliarsi con intelligenza finora.
Se, o forse si dovrebbe dire quando Trump entrerà alla Casa Bianca, i giochi infatti cambieranno perché l’Occidente si dividerà. O con Washington, o con Berlino e Parigi. Varrà innanzitutto per l’Ucraina e un possibile tentativo di appeasement con Putin. Sia che l’istinto di destra porti Meloni a stare con Trump, sia che tenga invece il punto e resti con Zelensky, in ogni caso l’Italia non potrebbe più fare da cerniera. Il sogno di entrare nella stanza dei bottoni dell’Unione sta svanendo, almeno fino alle presidenziali francesi. E una posizione più debole politicamente, perché meno necessaria e dunque meno influente, ci renderebbe più deboli anche finanziariamente, soprattutto ora che torna ad aggirarsi per l’Europa lo spettro del Patto di Stabilità.
Ma non è solo l’Ucraina che può aprire il solco nel quale l’Italia di Giorgia rischia di inciampare. C’è anche la gran voglia di dazi che anima la squadra di Trump, e in particolar modo il vice designato Vance, un «falco» in materia di commercio estero che considera l’Europa un avversario quasi alla pari della Cina. Quando era presidente, Trump fece notare alla Merkel durante una visita di Stato che aveva visto troppe poche Ford e Chevrolet a Monaco di Baviera. A buon intenditor... In una guerra dei dazi con l’America la Germania è il paese europeo che rischierebbe di più. Ma l’Italia viene subito dopo, visto che tra i Paesi del G7 vanta il secondo miglior surplus commerciale con gli Usa.
La premier
Avere i due partner di governo che si fanno opposizione l’un l’altro è scomodissimo
Ad allargare il fatidico solco c’è però anche dell’altro. Tra poco più di un anno la Cdu dovrebbe tornare al governo in Germania. A quel punto la sezione italiana del Partito popolare, e cioè Forza Italia di Tajani, non potrebbe che stare con Berlino. Sarà un interessante spettacolo per tutti – tranne che per la premier – vedere il tiro alla fune tra un vicepremier dalla parte di Trump e l’altro dalla parte di Merz (il possibile futuro cancelliere democratico cristiano, magari in alleanza con i Verdi).
E qui arriviamo alla politica interna. Se prima c’era solo Salvini a cospargere di chiodi il tragitto della vettura meloniana, ora s’è aggiunta la seduta di autocoscienza aperta in Forza Italia sotto la spinta dei «figli» (inutile dire di chi). Il paradosso è che al momento i due alleati di governo sono occupati a fare l’opposizione l’uno dell’altro. Situazione scomodissima per qualsiasi presidente del Consiglio. E che rende politicamente impraticabile quell’uscita di sicurezza da un eventuale stallo che alcuni osservatori un po’ immaginifici ipotizzano, e cioè elezioni anticipate prima della fine della legislatura (e prima del referendum costituzionale, ad alto rischio). Perché chiedere i voti per la stessa alleanza politica la cui crisi avrebbe provocato le elezioni sarebbe davvero improvvido.
Last but not least, come direbbe Matteo Renzi che l’inglese lo mastica, si sta esaurendo un’altra rendita di posizione per Giorgia Meloni. Finora infatti il suo governo godeva di una totale assenza di alternative possibili. Adesso forse si può cominciare a togliere l’aggettivo «totale». Nel senso che non c’è ancora neanche alle viste una proposta credibile di governo del centrosinistra, ma il centro comincia ad allearsi con la sinistra, e questo può essere un game changer, come direbbe sempre Renzi: un elemento che cambia il gioco politico. Lo scenario «Pd+cespugli», che sondaggi e voti ormai disegnano, con un M5S troppo piccolo per insidiare la leadership dem e così piccolo in Europa da dover confluire nel gruppo di Salis e Rackete, è l’habitat migliore per far risorgere una coalizione dalle ceneri del centrosinistra. Non è perciò un caso che nelle prossime elezioni regionali in Emilia-Romagna, in Umbria, e anche in Liguria se la Cassazione non restituirà la libertà a Giovanni Toti, il centrodestra non parta con i favori del pronostico.
Intendiamoci: la premier è ancora ben salda al suo posto. E la politica è stata inventata per sfatare le previsioni pessimistiche. Però, di solito, se una cosa può andar male c’è sempre una buona probabilità che vada male...