Corriere della Sera, 23 luglio 2024
Quell’equivoco sulle sue origini: perché Kamala è figlia dell’élite
L a prima dichiarazione di Kamala Harris dopo il ritiro di Joe Biden è stata cauta: «Mi guadagnerò la nomination presidenziale». Un riconoscimento implicito che l’investitura del partito non è automatica. Lei sa di doversela meritare. Se non ci fosse stato il presidente in carica a congelare tutto fino a domenica, se all’inizio di quest’anno si fossero tenute delle primarie normali, è poco probabile che le avrebbe vinte lei. Adesso può sperare che l’emergenza faccia precipitare una sua nomination. È un gioco pericoloso, non deve sembrare una decisione presa a porte chiuse da un’oligarchia di notabili. Barack Obama aveva suggerito una convention «aperta» a Chicago in agosto: un confronto competitivo tra diverse candidature. Una zavorra appesantisce Kamala negli indici di popolarità. È il peso della politica «identitaria», la decadenza della democrazia americana che soprattutto a sinistra si è trasformata in un mosaico tribale, fatto di gruppi etnici e altre minoranze, tutti gonfi di risentimenti e recriminazioni, in costante richiesta di risarcimenti e corsie preferenziali. Un equivoco è all’origine della sua cooptazione come vice nel 2020. Fu innalzata al secondo posto dell’esecutivo in quanto donna di colore, in omaggio alla politica «identitaria», per consacrare il fatto che il partito democratico si considera il difensore di tutte le minoranze oppresse, oltre che delle donne (queste sono una maggioranza, però non ancora del tutto alla pari con gli uomini). Le lobby identitarie, che hanno fatto del partito democratico un «arcobaleno» dove le loro cause sono sacre, hanno visto in Kamala un simbolo della loro egemonia a sinistra. Lei si è prestata al gioco. Ha recitato la parte di una esponente di quelle minoranze vittime del razzismo. Lo ha fatto con veemenza. A partire dal celebre dibattito televisivo del 2020, durante le primarie. La Harris aveva attaccato Biden sulla questione razziale. Gli aveva rinfacciato una vecchia presa di posizione ostile alla politica del «busing». Spiegazione. Negli anni Settanta, dopo le conquiste sui diritti civili, rimaneva un divario di apprendimento tra figli dei bianchi e dei neri. Poiché bianchi e black non abitavano negli stessi quartieri e non frequentavano le stesse scuole, vennero organizzati bus scolastici che portavano gli alunni afroamericani in quartieri bianchi o viceversa. Ma l’esperimento toccò solo alcune fasce della popolazione. I bianchi dei ceti medio alti misero i figli in scuole private che non partecipavano. La mescolanza colpì i genitori della classe operaia bianca che videro il livello scolastico scendere. Se criticavano il «busing», come a suo tempo aveva fatto Biden, venivano tacciati di razzismo. Rilanciare quell’accusa contro Biden molti decenni dopo era sleale. Così la Harris volle fare dimenticare la propria carriera politica che l’aveva collocata nel centro moderato conservatore del suo partito. Biden nel 2020 doveva coprirsi il fianco a sinistra. Donna, di colore, figlia d’immigrati, lei era il prezzo da pagare per placare i radicali e sedurre i media. La sua nomina fu celebrata con fuochi d’artificio: storica, rivoluzionaria. In realtà la sua biografia si prestava a tutt’altra narrazione. La storia dei genitori (una ricercatrice universitaria indiana discendente dalla casta privilegiata dei bramini; un celebre economista afrogiamaicano) è l’apoteosi di un American dream costruito da élite di immigrati qualificati che diventano classe dirigente; il contrario dell’attuale ideologia woke. Invece Kamala ha recitato la parte presentandosi come un’esponente di minoranze emarginate, discriminate e oppresse. Una delle accuse che le rivolgono spesso i repubblicani è questa: la Harris non parla in modo positivo dell’America, è più attenta a criticare il proprio Paese che non a esaltarlo come una terra di opportunità. Ma la storia dei suoi genitori, quindi la sua, è segnata dai benefici della meritocrazia, non dai danni del razzismo. Diventando lei stessa un’icona della politica tribale e identitaria, ha falsificato quella storia familiare che condensa il lato positivo dell’America. Barack Obama fu l’ultimo presidente a parlare dell’America come di una terra di opportunità: un’espressione messa al bando dalla sinistra radicale, perché contraddice la narrazione sul «razzismo sistemico» scolpito nelle istituzioni, il riferimento ossessivo allo schiavismo imposto dalla dottrina della Critical race theory insegnata nelle scuole.