il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2024
Elizabeth e Vincent van Gogh. Quella follia assolta ai confini del genio
Sorrow. Emerge dal testo dell’ammirevole Lies, detta anche Bugie. Affiora quasi a definire una qualsiasi penombra odorosa, malinconica e olandese che atteneva a un tempo, alla suggestione provocata da colui (il genio) che, al centro di quel crogiolo di circostanze, riordinava gli avvenimenti; Lies enuncia nella memoria schietta e austera, autentica fin nel profondo delle intenzioni non possiamo dichiarare con certezza, la sostanza di una vita, in fondo.
Il genio era il fratello, Vincent Van Gogh, e lei, Elizabeth, si limitava tutto al più a essere l’eccentrica, quella delle scelte sbagliate, anche se può definirsi una scelta innamorarsi di un uomo sposato? Malgrado fossero gli anni di una riscrittura di costume e morale della donna, con romanzi che ne lasciavano in nuce una forza oscura e segreta (erano gli anni di Anna Karenina di Tolstoj, di Emma Bovary, erano gli anni delle sorelle Bronte); Lies dunque era una poetessa, una scrittrice. Lies. Il libro viene pubblicato, una raccolta breve di indizi, qualche anno fa, con la casa editrice Via del Vento (a cura di Francesca Degani), una summa inedita dal titolo Mio fratello Vincent. Sembrerebbe una corrispondenza nell’empito del sentimento di cura e dedizione. Eppure Willem-Jan Verlinden, nel suo saggio dedicato alle sorelle Van Gogh (esce per Donzelli nel 2022), riferisce che Vincent e Lies non intrattenevano alcuna corrispondenza, empatica o elettiva men che meno, eccetto il fratello Theo, l’unica sorella con la quale Vincent riusciva a comunicare era l’ultima, Willemien. Con lei discuteva di letteratura, dell’arbitrio e dello spirito, veramente sconsigliandole di abbandonarsi al fuoco cangiante dell’arte, divorante. Innamorati piuttosto, le suggeriva, “innamorati di un praticante notarile”. Tanto scriveva a Willemien, non a Lies, più giovane di qualche anno.
Nell’omonimia diventa facile appaiare l’allure enigmatico di Elizabeth/Lies con l’Elizabeth di Nietzsche. Questi affidato del tutto a un temperamento predominante, pare, non poté confermare né sconfessare la legatura (più che un legame); non esattamente deve dirsi di Vincent, e tuttavia aggiogati entrambi a un delirio, mistico, di salvezza, di terribile intercessione (o misericordia umana); su entrambi si rivela postuma l’ombra non autorizzata da una definitiva fedeltà, l’ombra di una sorella.
Elizabeth.
Aveva un’ambizione, Elizabeth? In quale maniera poteva difendersi (nel senso: la sua determinatezza nella parola al confronto poteva dirsi mai talento?), accomodarsi o ancor meglio congedarsi, senza spasimi di accettazione invereconda, dal gigantesco Vincent, fragile e incommensurabile nella disposizione alla sofferenza, al compatimento inteso come urgenza del proprio male e insieme della propria inadeguata modalità di esistere.
Elizabeth lo sa, intuisce l’impossibilità può darsi di afferire a una tale stravagante genialità, profetica; il suo piccolo tratto è intimidito dalla gigantografia di una sopraffazione mirabile, celestiale, i dipinti del fratello, il suo stesso sguardo inafferrabile sul creato, sulla mestizia del mondo, la miseria, il dolore.
Elizabeth lo sa. È una rivelazione? Ecco cosa deve essere il talento. Il confine con la follia. Lo scriverà Lies. Un artista è incapace di lavorare. Allora scagiona a posteriori e illumina chiunque, avverte, la serpe in seno, la spada conficcata nel fianco.
Cos’è? Elizabeth/Lies lo promette silenziosamente: il dolore del mondo. Un corollario da frequentare nei secoli a venire. Assolverlo. Assolverlo nelle aspettative dimesse di tutte le adempienze.
E lei? Non avrebbe dovuto anch’essa restituirlo nelle dovute compromissioni e cadute, ingenerando scandali, offrendosi nel sacrificio immemore o involuto?
Era un sacrificio aver amato un uomo sposato? Si prendeva cura della moglie. Non poteva immaginare. La moglie di Jean Philippe Theodore du Quesne Van Bruchem, avvocato nonché procuratore di Utrecht.
Lei si è semplicemente innamorata. Anni dopo, la rivista olandese Panorama scriverà che Lies era rimasta incinta di costui, del procuratore di Utrecht, aggiungendo: non volutamente.
Un sacrificio, una deviazione indicibile. La bambina venne affidata a una vedova di Saint Sauveur le Vicomte. Nacque il 3 agosto del 1886.
Non era abbastanza offesa una tale esistenza, tale da dover annoverare un qualche talento riconciliabile con il gigantesco Vincent?
Allora Lies scriveva, nella trasmutazione da un capo all’altro. Dipinge con pennellate semplici, incapace di librare oltre il limite convenuto a intelligenze partecipi di volontà, non di altro. Il fratello dipinto con la parola, la parola della sorella che non è dato dire vi fosse in verità così prossima. Quando Lies narrava di Van Rappard, un amico del fratello, un artista che non seppe dispiegare le ali, lo inchiodò proprio in questa deludente misura, potrebbe sembrare che Lies rimuginasse sé stessa.
Nella chiosa dedicata a Van Rappard, che il fratello conobbe ad Anversa, Lies introduce il preambolo al dipinto assoluto, iconico, “Dolore” o Sorrow. La donna era la traduzione della poetica maturata negli anni, lavorata nell’argilla del suo male, il dolore dell’altro, rappreso in Vincent, il foro nel palmo della mano.
Elizabeth non era che il riflesso contenuto di una raggiera infinita, non riferibile, non più di quanto a tentoni avrebbe fatto. Un talento raccolto. Il talento dell’altro, spaventevole, non meno che i miserabili amati dal fratello.
Elizabeth dal talento ambito. La volontà che diventa forziere con gemme imprestate.
Era soltanto questa Elizabeth?
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