Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  luglio 23 Martedì calendario

Biografia di Kamala Harris

Aveva le mani sudate e il cuore intossicato, quel disgraziato di Thomas Mattew Crooks, 20 anni, ma a sua insaputa era un cecchino coi fiocchi, visto che con quei tre colpi sparati a Butler, al netto del povero pompiere morto ammazzato, ha fatto tre centri nella Storia americana. Con il primo colpo, sparato in mezzo alle teste vuote del Secret Service, ha incoronato la corsa di Trump alla Casa Bianca. Con il secondo, ha interrotto la risalita sull’albero dei bradipi di Bye bye Biden. E con il terzo ha dato il via ai centodieci metri a ostacoli di Kamala Harris, vicepresidente in carica, che a brevissimo verrà chiamata a scalare il mondo, quando gli americani e il Deep State sceglieranno chi dovrà governare il più grande arsenale democratico della Terra.
Kamala, nella bella lingua del Tamil Nadu, significa “fiore di loto”. Galleggia per natura. Ma ha anche massima resilienza, quando occorre. Proprio come la sua titolare cresciuta nella California democratica, dove si è nutrita di cultura liberal, frequentando i movimenti studenteschi, fino all’Hastings College, laurea in Giurisprudenza. E poi lungo una controversa carriera di procuratore, sempre illuminata da battaglie sul campo – inflessibile con il crimine, dura con le gang, severa con i colletti bianchi, ma anche con i clandestini – e da controversie nel cielo dei media dove era rinominata “la procuratrice poliziotta”.
Salvo precipitare dentro l’ombra di Joe Biden, in questi quattro anni di vicepresidenza, che sarebbero dovuti essere i più visibili. La verità è che Biden, veterano della politica, l’ha usata per guadagnare consensi tra gli elettori delle minoranze, poi l’ha silenziata su quasi tutti i temi importanti – economia, ambiente, sanità, istruzione – tranne su quello spinosissimo dell’immigrazione, dove l’ha guardata deragliare, senza mai chinarsi per darle una mano. L’inciampo peggiore Kamala Harris l’ha fatto alla fine del suo primo viaggio in Centroamerica, un anno dopo l’elezione, quando a consuntivo degli incontri avuti in Messico, Guatemala e Honduras, ha pronunciato in pubblico quel “Non venite!” che le è costato il sarcasmo dei Repubblicani e insieme l’incazzatura di tutti e cento i popoli che aspirano all’America e al suo sogno di sola andata.
La sua storia lo incarna alla perfezione. La madre, Shyamala Gopalan, è arrivata dall’India a 19 anni, diventerà biologa di fama, mentre il padre Donald Harris, arrivato dalla Jamaica, diventerà docente di Economia a Stanford. Si incrociano a Berkeley, condividono le battaglie sui diritti civili della Bay Area Californiana negli anni cinematografici di Fragole e sangue, che vuol dire raduni, musica, marce contro la guerra in Vietnam. Si sposano. Fanno due figlie, Kamala è la primogenita, nasce il 24 ottobre 1964 a Oakland. I genitori divorziano l’anno successivo.
Cresciuta con madre single e origini bi-razziali, proprio come Barack Obama, sviluppa una sua determinazione che applica al carattere, allo studio, alla carriera. Dirà: “Vivendo in mezzo alle comunità di neri, ebrei, asiatici, chicanos, ho imparato che esiste la disuguaglianza”. Per un quarto di secolo passato nelle aule di giustizia, si incaricherà di porvi rimedio alla sua maniera. Diventa procuratore a San Francisco, poi capo della Career Criminal Division che coordina cinque procure. Si occupa di crimini violenti, omicidi, rapine, reati sessuali. Verifica quanto e come i delitti crescano nelle zone dove è più alto l’abbandono scolastico e insufficienti i servizi sociali. Chiede interventi a tutela dei più deboli. Contemporaneamente, davanti al potere del crimine organizzato, pretende la massima severità nella repressione. Il che non le impedisce di battersi contro la pena di morte e insieme di difendere quella dell’ergastolo senza sconti per i colpevoli più pericolosi.
I media la illuminano non solo per le ricorrenti controversie nei tribunali, ma anche quando si lega sentimentalmente a Wllie Brown, politico afroamericano di spicco, futuro sindaco di San Francisco che i giornali definiscono “il playboy che ama le auto e le donne di lusso”. Siamo nel 1993: Kamala ha 29 anni, lui 60, sposato con figli. Tutto miele e fiele per i media che scrivono di Brown: “È capace di andare a una festa con sua moglie a un braccio e l’amante all’altro”. Sarà lui a lasciarla nel 1996, quando si insedierà sindaco, presentandosi alla cerimonia con moglie, i tre figli e la bibbia in mano. Ma intanto Kamala ha incassato due nomine in altrettante commissioni statali e, dicono le malelingue, la spinta finale per diventare il procuratore capo, prima di San Francisco, poi della California. Circostanze che Kamala ha sempre minimizzato, togliendosi la soddisfazione, una decina di anni più tardi, di mettere il suo mentore sotto inchiesta con l’accusa di clientelismo, di definirlo “un albatro appeso al collo” in una intervista tv e di non nominarlo affatto nella sua autobiografia Le nostre verità.
Da procuratrice capo ripete: “Non è mai progressista essere morbidi con il crimine” e poi: “Nessuno in America è al di sopra della legge”. Due convinzioni che imbraccia per mettere sotto inchiesta non solo i narcotrafficanti internazionali, ma anche lo strapotere delle Big Tech della Silicon Valley, le multinazionali del petrolio, i colossi della finanza. Allo stesso tempo difende i diritti civili, la comunità gay, il diritto all’aborto delle donne contro le offensive della nuova onda ultraconservatrice. Dopo varie turbolenze sentimentali, incontra l’anima gemella, l’avvocato newyorchese Doug Emhoff, a un blind date, un “appuntamento alla cieca”, e nel 2013 si sposa.
Dalla procura al Senato, anno 2016, è un salto che le moltiplica i nemici e le durezze del carattere. Trasuda insofferenza quando gli intervistatori le chiedono delle sue origini indiane, giamaicane e nere: “Non siamo un vetro piatto, ma un prisma, una somma di tanti fattori”. E quindi? “Sono americana e basta”.
Veterana delle molte commissioni di inchiesta del Senato si è occupata di Donald Trump, senza la minima timidezza. Nel 2018 lo attacca quando ordina di separare le famiglie dei clandestini, imprigionando i bambini. E l’anno dopo, quando Trump viene accusato di ostacolare la giustizia che indaga sulla sua condotta presidenziale, votando per l’impeachment.
Ora Trump fa lo spaccone: “Sarà ancora più facile batterla”. Ma è la paura a dettare la nuova bugia, visto che Kamala ha 59 anni, sprizza energia. Può salire di corsa le scale del potere, lasciandosi indietro l’uomo che a 78 anni si credeva giovane e all’improvviso si ritrova vecchio.