la Repubblica, 23 luglio 2024
Intervista a Martin Rueff, curatore delle opere dello scrittore italiano per Gallimard, ne racconta l’impatto sulla cultura francese E le affinità elettive con l’autore della “Recherche”
Il gozzaniano Pavese (nelle liriche giovanili l’orma del Bel Guido è così vivida) non riuscirà mai a scorgere in Torino un eco di «bel garbo parigino». O, almeno, non al punto da avvertire l’urgenzadi raggiungere la capitale francese per riconoscere la sua città. È la Francia a salire a Santo Stefano Belbo attraverso Martin Rueff, curatore delle sue Oeuvres per Gallimard. Lo studioso, successore di Jean Starobinski all’Università di Ginevra, riceverà il premio intitolato all’autore deLa luna e i falò,sezione poesia per la raccolta Verticale ponte. I poeti sconfinati (Modo Infoshop).
A Santo Stefano Belbo, nei luoghi di Pavese, giungerà per la prima volta?
«Fisicamente sì. Sarà un’emozione grande trovarmi di fronte il personaggio principale di Pavese: il paesaggio».
Che cosa l’affascina di Pavese?
«È una figura cardine della letteratura italiana ed europea. Il Pavese che sento più vicino è il poeta. Alla poesia italiana ha portato in dote un senso di concretezza inaudito, di intatta attualità.Lavorare stanca è, con Dialoghi con Leucò,il suo vertice. Di Pavese apprezzo anche la poliedricità: intellettuale, scrittore, traduttore».
Pavese letterato e Pavese uomo: li distingue?
«Nella sua scrittura c’è tutto Pavese. Capiamodi avere a che fare con un uomo. Non è un uomo che si atteggia».
Com’è stato accolto Pavese in Francia?
«A cavallo fra anni Cinquanta e Sessanta il suo peso è stato non lieve. Grazie anche allaliaisonfra Einaudi e Gallimard. In particolare, con enorme attenzione fu accolto Il mestiere di vivere.Come iDiari di Kafka. Per il riferimento al mestiere di scrivere. Anche se Pavese non ha avuto il successo di Calvino, la cui trilogia è molto diffusa nelle scuole».
C’è uno scrittore francese che accosterebbe a Pavese?
«No, non credo ci sia un autore così radicato nel territorio e, insieme, così intellettuale.
Forse il paragone va fatto con Faulkner, ma occorre varcare l’Oceano…».
Pavese non riserva una speciale attenzione agli scrittori francesi. Ma ne “Il mestiere di vivere” si sofferma più volte su Proust, evidenziandone “l’incomunicabilità delle anime” e “degli stati d’animo tra loro”. Pavese e Proust idem sentire?
«Il solipsismo li unisce, riassumibile nel verso di Pavese: “Ho trovato compagni trovando me stesso”. La differenza: Pavese ritiene che la poesia e il mito, più del romanzo, consentano di ricreare il tempo perduto».
Nel 1967, in Francia, apparve una discussa lettura psicoanalitica di Pavese: “L’échec de Pavese” di Dominique Fernandez. Come lo considera?
«Non lo considero. Fernandez legge Pavese attraverso la sua problematica vita sessuale.
Un teorema sterile. Inservibile per comprendere Cesare».
Pavese e Kafka. Elias Canetti, nei “Processi”, li accomuna: “Il vero poeta è il cane del proprio tempo”.
«Una definizione criptica. Vuol forse dire che come il segugio fiutano le tracce, nel caso, del loro tempo? Pavese e Kafka non sono scrittori che hanno risposto al loro tempo, ma lo hanno trasformato in una domanda. Non li segnal’ossessione di corrispondervi. Inventano invece forme di sensibilità per il futuro».
A Santo Stefano, alla Fondazione Pavese, è approdata la biblioteca di Lorenzo Mondo, il critico che ha rivelato il Taccuino segreto diPavese, dove si esprime un’ammirazione sorprendente per la Germania nazista…
«Rappresentò uno choc, pure in Francia.
Ritengo che non si debba ridimensionare lo scandalo né farne la chiave di tutto. Occorre contestualizzare il Taccuino, leggerlo alla luce di quella tremenda epoca. Non dimenticando che la sensibilità politica di Cesare Pavese non era così acuta».
Lei, a suggello delle “Oeuvres” di Pavese per Gallimard pubblica il saggio di Italo Calvino intitolato “Pavese e i sacrifici umani”. Gli studi etnografici non contribuirono forse ad avvicinare Pavese alla cultura reazionaria?
«È ciò che sosteneva Furio Jesi. L’antropologo e filosofo Michael Löwy ha meditato sul romanticismo reazionario-progressista.
Ovvero: ricercare nel passato modelli a cui affidarsi per trasformare il presente. In questo alveo, per esempio, si collocano le pasolinianeCeneri di Gramsci».
Starobinski ha dedicato un saggio a “La poesia dell’invito”. Possiamo annoverarvi Pavese, individuando nella morte il destinatario del suo appello?
«Certo, soprattutto le poesie della fine. Cesare Pavese è un poeta orfico, è capace come Leopardi e come Baudelaire di scovare voci e visi spenti e di resuscitarli, via via componendo un cenacolo dove non sentirci soli nei nostri “logori, disillusi, disperati” giorni. Come recita l’incipit di una sua lirica giovanile».