il Giornale, 22 luglio 2024
Il necrologio di Mario Cervi per Indro Montanelli
Cerco di non farmi sopraffare – mentre butto giù queste righe – dall’emozione e dal dolore: che mi suggerirebbero di tacere, per confidare soltanto al cuore, e ai ricordi, i miei sentimenti. Ma ho il dubbio che questo sarebbe un gesto d’egoismo. Di lassù dove ormai si trova – con una abbagliante e indistruttibile Lettera 22 sulle ginocchia – Indro mi ammonirebbe: «Mario, l’articolo viene prima di ogni altra cosa». E allora eccolo non l’articolo, che suona male, non un necrologio solenne che rievochi le vicende di una lunga, intensa, e straordinaria esistenza, ma una dichiarazione d’affetto all’amico di mezzo secolo che se ne è andato.
Per l’abbinamento dei nostri nomi su tanti libri, ma non solo per questo ho la sensazione che una parte di me stesso se ne sia andata con lui. Ero stato a casa sua pochi giorni prima del ricovero in clinica, e avevamo parlato a lungo – come accade quando si è molto in là con gli anni, perché il tema s’impone – di morte e di malattia. Non temeva la morte ma la sentiva approssimarsi. «Nell’ultimo anno ho avuto una brutta botta di vecchiaia», mi disse con l’aria noncurante che usava riferendosi ai suoi fatti privati.
Temeva molto invece la malattia debilitante e la debolezza senile che avvilisce le persone. «Il giorno in cui non potrò andare in bagno da solo – aveva dichiarato – chiederò per me l’eutanasia». La sorte ce l’ha tolto, e per questo mi vien voglia d’odiarla. Ma la sorte gli ha risparmiato la decrepitezza. La testa è rimasta fino all’ultimo splendidamente lucida, la voce è rimasta forte, lo sguardo penetrante. E fino all’ultimo le mani ossute hanno tranciato l’aria con perentoria vigoria. Indro ci ha lasciati alla Indro, senza consentire che l’età l’umiliasse. E a noi che gli volevamo bene questo pareva impossibile.
Volevamo ricordarlo protagonista: adorato, contestato, ingombrante ma prezioso – per la sua statura morale oltre che fisica – in un’Italia che egli criticava ferocemente, ferocemente amandola.
Una luce si è spenta. Piacesse o no quella luce è stata un punto di riferimento, un faro indispensabile per molti, direi per tutti, in un arco di tempo che ha abbracciato gran parte del secolo scorso. A quel faro si rivolgevano amici e nemici, chi cercandovi un avallo alle sue idee, chi un motivo di discussione e di critica. Ma al fascino di quella personalità e di quel giornalismo non si poteva restare indifferenti. Armato unicamente di Lettera 22 Indro ha esercitato, senza volerlo, o almeno senza inizialmente proporselo, un’influenza culturale e anche politica che nessun giornalista ha eguagliato, e che ritengo nessun altro eguaglierà. L’ha potuta esercitare, quell’influenza, anche per la sua allergia a onori ufficiali e a prebende clientelari o partitiche. Avrebbe potuto sedere in Parlamento quanto Andreotti, ma ha capito che certi compromessi con la propria coscienza cominciano così. Avrebbe potuto essere senatore a vita, e ha rifiutato.
Gli possono essere imputati errori, ma io credo che non possano essergli imputate meschinità, e che insieme col talento eccezionale la natura gli avesse concesso la dote rara della generosità: in senso venale e in senso morale.
Non era severo, a quattr’occhi, con nessuno: i suoi giudizi politici apparivano sovente sferzanti, i suoi giudizi umani erano molto bonari e indulgenti. Rispettava il lavoro altrui e le opinioni altrui: l’ho visto rifare un pezzo perché gli avevo detto che non ero convinto: e so di un’infinità di giornalisti alle prime armi che si offendono per una osservazione. Abbiamo scritto insieme una quindicina di libri ed è stata una esperienza umana e professionale unica. Tanti libri, e nessuna divergenza anche quando riguardavano periodi che ci vedevano, per circostanze note, su posizioni diverse.
Piango il mio amico Indro, e piango anche il primo direttore di questo giornale che spezzò – sotto la guida del borghese Montanelli – i conformismi e le viltà d’una certa borghesia grassa e paurosa. Ma preferisco sfiorare soltanto, in quest’ora di lutto, temi che potrebbero apparire polemici, e che sarebbero comunque stonati. Il re dei polemisti e dei pessimisti mette tutti d’accordo, ora che non c’è più, perché tutti sentiamo che gli dovevamo molto, sentiamo d’essere un po’ più soli e un po’ più poveri di quelle componenti della vita che si chiamano cultura, genialità, umorismo. Io sono più povero dell’affetto che Indro mi dava e che ricambiavo. Non so, Indro, se dalle parti dove stai adesso e dove non tarderò a venire ci sia un angolo riservato ai giornalisti. Se c’è, sono sicuro che mi terrai un posticino, e io lo occuperò. Per intanto addio Indro caro.
23 luglio 2001