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 2024  luglio 22 Lunedì calendario

Biografia di Antonio De Matteis

Attesa al piano nobile del meraviglioso palazzo milanese (macché milanese: Brera!) che fu di Gianfranco Ferré. Stile liberty fin nelle fondamenta. Ci piazzano in una stanzetta laterale adibita a show room, in mezzo a manichini e camicie gialle. Poi, eccolo, elegantissimo, in abito blu: Antonio De Matteis. Non lo precede un’essenza; ma il suo accento napoletano (macché napoletano: Chiaia!) mentre al telefono sembra sbrigare, con intatta raffinatezza, una qualche noia legata ad una barca. De Matteis: amministratore delegato di «Kiton», alta sartoria partenopea, marchio ereditato dallo zio-fondatore, il mitologico Ciro Paone (morto nel 2021); e, da un anno e mezzo, presidente di «Pitti Uomo» la più importante rassegna mondiale della moda maschile.
Questo palazzo Ferré è...
«Ex Ferré! Oggi Palazzo Kiton! Lo comprò lo zio nel 2013, con la promessa che non lo avrebbe toccato. Guardi gli infissi, gli ottoni, le boiserie in legno, le pareti in acciaio trattato! Tutto ancora come l’aveva voluto l’Architetto». 

Che poi è lo stesso Ferré: laureato al Politecnico.
«Lo incontravamo al Papermoon, dietro a San Babila. Era voluminoso; ma uomo di enorme classe. Peccato che la sua azienda fu venduta alle persone sbagliate».
Kiton cosa vuol dire? 
«Era la tunica che i greci indossavano quando andavano a pregare sull’Olimpo. Lo zio era partito da tessutaio a Napoli nel 1956, con una ditta chiamata “CiPa”, le sue iniziali. Quando sbarcò all’estero qualcuno gli disse che la pronuncia di quel nome risultava troppo simile a cheap. E cambiò. Con tutto il rispetto, dottore, i nostri abiti sono tutto fuorché economici...».
Napoli 1956. Che tempi.  
«C’erano tre sarti per ogni palazzo. Zio però era visionario. Cominciò a fabbricare cappotti, poi abiti, infine giacche. Ha finito per vestire le persone più importanti del mondo».
Dicono pure Zuckerberg, che però si fa vedere in giro con certe magliettine... 
«Posso dire solo che serviamo l’80 percento dei primi 100 uomini di Forbes».
Va beh, qualche nome.
«Abbiamo fatto delle cose per l’Avvocato. Come lui non c’è più nessuno. I riferimenti per l’elegenza oggi sono altri. Sfortunatamente».
Vediamo: Vacchi, 22 milioni di follower su Instagram.
«Passerei avanti».
Torniamo a Ciro Paone. Il capostipite. Che poi le ha passato il testimone.
«Ho dormito più con lui che con le mie due mogli. Passavamo insieme circa 200 giorni l’anno. Ci spostavamo in macchina, non prendeva l’aereo».
Dicevano che fosse simpaticissimo. 
«Sì, ma non parlava. Tra Napoli e Amburgo stavamo anche 20 ore senza dirci nulla. Però dava le massime».
Ciro Paone con Sergio Mattarella
Tipo?
«Se in un albergo non fanno entrare i bambini, non ci andare: non è di qualità!».
Che saggezza.
«Studiava tutto. Una notte dall’Hotel Savoia partecipammo all’asta dei vestiti del Duca di Windsor. Erano appartenuti a Dodi Al Fayed. Riuscì ad accaparrarsene dodici: l’abito del matrimonio, che è sicuramente quello più simbolico perché con quell’atto il Duca rinunciò alla corona. Poi quello da caccia, il kilt. Li analizzò fino all’ultimo centimetro per carpirne i segreti. 
C’erano cose impensabili lì dentro».
Vogliamo sapere.
«Il boxer del Duca era attaccato alla cinta dei pantaloni: quando li abbassavi, si levavano anche le mutande».
Neanche D’Annunzio. Paone invece come vestiva?
«Molto elegante, nonostante non avesse un fisico meraviglioso: un po’ bassino, di pancia. Però un portamento, dottore».
Cosa indossava?
«Amava moltissimo i principi di Galles, i tessuti pesanti. Aveva un guardaroba meraviglioso. Tutto conservato, il sogno è farne un museo».
Fu Paone a portarla a Pitti. 
«La prima volta avevo 18 anni. All’epoca lo stand di Kiton era in un posto che definirlo infame era poco: di fronte ad un bagno in un corridoio cieco. Oggi che sono diventato presidente della kermesse, sento espositori che pretendono subito il posto migliore. Pitti comunque resta imprescindibile: è l’unica fiera al mondo che ti fa incontrare 12 mila buyer in quattro giorni. Quelli che lo saltano e pensano che i clienti vengano a trovarli direttamente a Milano non hanno capito nulla: a Milano i giochi sono già fatti».
Pitti ha visto l’uomo cambiare. Così Esquire presentava l’edizione 1988: «Nel guardaroba di lui la moglie non conta». A dirlo oggi...
«L’uomo si è avvicinato molto alla donna come mentalità. Si cambia più spesso, anche tre volte al giorno. Io stesso, una volta, con l’abito della mattina andavo a cena con il cliente. Devo dire che è una grandissima chance di potere vendere di più».
Sì, tra l’altro: moda e caporalato. Hanno beccato di recente anche grandi marchi con le mani nella marmellata.
«Io vengo da Napoli, sono cose ben note. Stanno scoprendo l’acqua calda. Quando leggo di aziende che fanno il 35% di Ebitda mi chiedo: ma che ci sta nel prodotto? Credo che con il 20 ci si campi tutti lo stesso. Noi ai nostri dipendenti diamo quasi il doppio della paga, i miei figli giocano con i sarti. In fabbrica mi chiamano tutti Totò».
I figli sono in azienda?
«Mariano e Walter, sono orgoglioso di loro. Li abbiamo messi su un progetto sperimentale: una collezione per il tennis».
Ah, bello. Tessuti sportivi?
«No, è per chi va a vedere il tennis sugli spalti. Roland Garros, Wimbledon...».
Cosa non deve mancare nel guardaroba di un uomo?
«Un abito blu, blazer, pantaloni classici. Lo smoking, naturalmente. Ma poi oggi perché no, un jeans».
Calzini?
«Solo blu».
I giovani oggi le piacciono?
«La sorprendo: hanno molte più attenzioni. Il ragazzo di 30 anni se non ha la scarpa nera nell’occasione giusta o non esce o la va a comprare».
I «Pitti» degli anni Novanta celebravano l’«uomo in technicolor». Va ancora?
«Dipende dal momento. Sono stato ad un matrimonio con un doppiopetto in solaro color rosa. Guardi». (De Matteis cerca sull’iPhone)
Ma è senza scarpe!
«Cerimonia in spiaggia, una meraviglia».
I suoi colleghi.
«Di fronte ad Armani bisogna togliersi il cappello. Qualche volta nel suo ristorante l’ho visto pulire i tavolini. Chi mi ispirava invece è il maestro Sergio Loro Piana».
Napoli com’è cambiata?
«Sta vivendo un momento magico. Nei quartieri spagnoli spuntano di continuo nuovi b&b, si sta creando un’economia incredibile».
La vostra sede storica è ad Arzano. Mai avuto problemi?
«Le aziende che si comportano bene hanno meno problemi. Poi a fare la guardia abbiamo ancora una ventina dei 47 pastori del Caucaso che si era comprato zio Ciro. Li andava a procurare in Russia».
Milano invece le piace?
«Molto, elegantissima. Ci vivo cento giorni all’anno».
Ha preso casa?
«Abbiamo fatto degli appartamenti proprio qui sopra. Ma preferisco stare in albergo. Sono 37 anni che vado nello stesso posto».
Quale?
«Il Principe di Savoia. Fu zio Ciro che al nostro primo viaggio a Milano mi portò a dormire qui. Pronunciò una delle sue massime: “Questo dev’essere il tuo albergo per la vita”. E ci vado ancora».