Il Messaggero, 21 luglio 2024
Intervista a Massimo Ranieri
Si è fermato per un po’, come da tempo dice di voler fare, ma in realtà solo per lavorare alle canzoni del nuovo disco. Lontano dal palco un fuoriclasse come Massimo Ranieri non ci sa stare e così il 30 luglio torna in pista: nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica di Roma terrà il primo concerto del nuovo tour Tutti i sogni ancora in volo, che fino al 7 settembre lo porterà da una parte all’altra d’Italia (poi a ottobre ripartirà e andrà avanti fino a maggio). A 73 anni per il Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana Giovanni Calone (è questo il suo vero nome, il presidente Mattarella l’ha nominato alla fine del 2021) non è ancora il momento per scendere dal palco.
Sui social due giorni fa si parlava con insistenza di un suo ritiro: cosa c’è di vero?
«Niente. Questo mestiere è per sempre. Certe bugie mi danno fastidio perché ci vedo cattiveria e superficialità, ho fatto anche un post per smentire. Certa gente straparla, sarà il caldo».
Che ne pensa invece di quei ritiri, che annunciano tour d’addio infiniti, di artisti come Claudio Baglioni o Umberto Tozzi?
«Mah! Non mi sembra che abbiano mollato. Sono bravi e fanno quello che hanno sempre fatto. Meglio così: chi rimarrebbe in giro?».
Come chi rimarrebbe? Non le piace nessuno a parte Tiziano Ferro e Diodato?
«Certo. Ci sono tantissimi cantanti in Italia. Alcuni bravi, altri meno».
Il 6 maggio 2022 è caduto dal palco del Diana di Napoli e si è rotto quattro costole e si è lesionato la spalla destra. È vero che pensa sia stato un messaggio da lassù?
«Sì. Credo in Dio e sono convinto che mi abbia voluto dire: fermati, stai andando a 300 all’ora e puoi andare massimo a 250. L’ho capito e voglio rallentare».
Ha rallentato?
«Per un paio di mesi non ho fatto spettacoli, ma solo perché dovevo incidere i provini di altre tre canzoni da far sentire al grande Gino Vannelli, il produttore canadese del mio nuovo disco che spero di far uscire entro la fine dell’anno (insieme è il terzo album che realizzano dopo Qui e adesso del 2020 e Tutti i sogni ancora in volo, ndr)».
Non le conviene aspettare un mese e mezzo e puntare su Sanremo a febbraio 2025?
«Se capisco di avere la canzone giusta, lo farò, certo. Perché no?».
Ha già sentito Carlo Conti?
«No. È troppo presto per parlarne. Vedremo più avanti».
Dalla nuova governance della Rai le sono arrivate delle proposte televisive? Per Viale Mazzini ha fatto di tutto.
«Non ancora. Però l’anno scorso su Rai1 ho condotto due prime serate con Rocio Munoz Morales. Comunque, se dovesse arrivare una chiamata, come i militari, mi metterei a disposizione».
Due anni fa ha pubblicato “Asini”, una canzone dal testo molto diretto e polemico: “Gli asini pullulano e poi si riuniscono. Gli asini parlano, comprano, postano. E poi ci convincono, ci illudono, decidono. Anche per te. Anche per me....”. In cima alla lista degli asini chi metterebbe oggi?
«Ce ne sono tantissimi, troppi, non me la sento di fare i nomi. Non saprei con chi iniziare».
Com’è l’Italia d’estate vista dal suo palco?
«Bella. Forte. Resistente. Non tutti se ne rendono conto della fortuna che abbiamo a vivere in un Paese come il nostro».
Che ricordi ha di quell’estate di sessant’anni fa, quando ne aveva solo 13, e con il nome d’arte di Gianni Rock andò per la prima volta in America, in tour con Sergio Bruni?
«Andammo con la nave e all’inizio fu tutto abbastanza angosciante: non sapevo nuotare e quando mi ritrovai in mezzo all’Oceano il terrore mi paralizzò: nella mia cabina l’acqua ricopriva l’oblò... I cinque-sei giorni di viaggio furono terribili. Per me quella in America fu un’esperienza di quasi due mesi meravigliosa per certi aspetti, soprattutto professionali, e terrificante per quel mare che non finisce mai. Il Mediterraneo è un’altra cosa: piccolo, tranquillo, rassicurante. E poi mi sentii un po’ emigrante...».
Di lusso, però.
«Certo. Con tutto il rispetto per quegli italiani che sono davvero andati via, dico questo perché in quel periodo comunicai poco con la mia famiglia. Capii davvero cosa vuol dire essere soli. Era un altro mondo e io non parlavo l’inglese, mi sentivo a disagio».
Cosa le manca di più di quegli anni?
«Sarà banale, ma i rapporti umani. Il cuore. La stretta di mano. Adesso è tutto freddo e distante: il tablet, le mail, i messaggini. Ormai neanche ci si parla».
A proposito di rapporti, una compagna adesso ce l’ha?
«Sì. Ha quindici anni meno di me, si chiama Serena e non fa parte del mio mondo: è un’insegnante. Stiamo benissimo insieme e stiamo facendo qualche giorno di vacanza. Sono a una svolta: è arrivato il momento di piantare le tende e vivere pienamente l’amore di una donna. La solitudine può essere anche bella, questo lo so, ma in due si sta meglio. Vedere un film insieme, fare una passeggiata, mangiare fuori casa... questo voglio. Prima stavo costruendo la carriera, ma adesso che cosa devo fare? Ho recitato con Strehler, ho vinto Sanremo, ho diretto opere liriche...».
Quindi si è tolto tutti gli sfizi?
«Tanti sì, per fortuna. Ho cantato all’Opera House di Sidney, al San Carlo di Napoli, alla Fenice e a piazza San Marco a Venezia... Spero di togliermene ancora tanti altri, anche se ho 73 anni. Ho dato tutto a questo lavoro, che mi ha restituito soddisfazioni immense. E anche qualche delusione».
La più cocente di tutte?
«Il film diretto nel 2017 da Roberta Torre Riccardo va all’inferno, una rilettura di Riccardo III di Shakespeare che avevo già fatto in teatro con la mia regia. Un bel film che è andato malissimo. Nessuno l’ha visto. Un vero peccato: Roberta è una regista straordinaria e Mauro Pagani per l’occasione aveva scritto cinque canzoni bellissime».
Un film da regista vorrebbe farlo?
«Il più grande di tutti, il mio mitico maestro Giorgio Strehler, disse «che è una brutta bestia». Aveva ragione: è un mestiere difficile, si ha tutto sulle spalle. Quando guardo i film di Woody Allen penso sempre: “Come ha fatto a girare più di 50 film facendo il regista, l’attore, lo sceneggiatore...?"».
Cosa le è venuto meglio?
«Aver detto di sì proprio a Strehler nonostante la paura che mi faceva lui e tutto il suo mondo. Era il 1981 e dopo due giorni di prove scappai a Linate per andare a Roma e non tornare più. Mi sentivo inadeguato. Sceso dal taxi pensai: “Se prendi quell’aereo per te è finita per sempre”. Tornai indietro, grazie a Dio».
Poi, anni dopo, se ne andò davvero.
«Ero curioso di scoprire altro. Se ci penso ancora oggi mi viene da piangere. Me ne andai con la promessa che se mi avesse chiamato sarei tornato anche a piedi. Il mio rimpianto più grande è che rividi Strehler solo tre anni dopo, nel 1997, dentro la bara appoggiata sul palco del Piccolo di Milano».
La sua paura più grande oggi qual è?
«Sapere che prima o poi tutto finirà. È giusto che sia così, siamo di passaggio e lo sappiamo, però è triste».
E quando sarà, fra cent’anni, che fine farà?
«Mi ritroverò a ricordare lassù qualche spettacolo e qualche bella serata con i miei colleghi. E forse, chi lo sa, potremmo anche finire a cantare in Paradiso».
Senza neanche un passaggio in Purgatorio?
«È vero. In Purgatorio sicuramente ci starò per un po’. Di peccatucci ne ho fatti. Poi decide Lui, per carità».
E l’epitaffio? Ci ha mai pensato?
«Sì. Massimo Ranieri, un operaio dello spettacolo».