Corriere della Sera, 21 luglio 2024
Col suo eloquio barocco, largo e forbito, Giuseppe Tornatore al Festival di Taormina parla del suo esordio come regista, quando nel 1982 girò per la Rai di Palermo il documentario Diario di Guttuso
Col suo eloquio barocco, largo e forbito, Giuseppe Tornatore al Festival di Taormina parla del suo esordio come regista, quando nel 1982 girò per la Rai di Palermo il documentario Diario di Guttuso. Nella loro Bagheria il grande pittore era un simbolo e un’autorità. È il ritratto di un artista che poi divenne in modo fortuito il suo sponsor, e di un’epoca remota, dove le bandiere e le idee non si cambiavano, e «dove c’era un equivoco perché quando si diceva ideologia bisognava intendere la vita e la morte».
Come conobbe Guttuso?
«Era il volto che dava forza, identità e riscatto culturale a Bagheria che era un villaggione dove tornava per presenziare alle mostre o per il suo compleanno. La gente gli chiedeva uno schizzo, lui con un tratto disegnava una colomba, simbolo della pace. Ebbi il coraggio di avvicinarmi, ero giovane. Mi chiese: e tu che vuoi fare? Il fotografo ma sogno il cinema. Avevo già girato un piccolo documentario, Il carretto. Guttuso volle vederlo e mi diede appuntamento nella sua casa di Palermo, in via Ruggero VII. Gli piacque molto. Mi disse cosa posso fare per te? Una recensione per quel filmato. Mi guardò deluso, come a dire, mi chiedi una cosa inutile. Fu la mia prima recensione. Il quotidiano L’Ora chiese di pubblicarlo. Tre giorni dopo lo acquistò il direttore dei programmi Rai di Palermo, dove cominciai a collaborare nelle sostituzioni estive come programmista-regista. Per una maternità lavorai sei mesi di seguito. Una manna. Lì feci il filmato su Guttuso».
In lei, ex giovanissimo proiezionista, c’era già la bellezza della nostalgia.
«Guttuso mi diede due giorni. Alla Rai si girava con la telecamera a spalla, non con la camera fissa, col cavalletto come volevo io. Mi dissero che non era previsto, così mi caricai il cavalletto sulle spalle, ma fare il facchino mi imbarazzava davanti a Guttuso, che mi gelò: sai perché sono un bravo pittore? Perché se mi danno da verniciare una porta lo faccio meglio di chiunque altro. Fu una lezione. Mi caricai tutto sulle spalle».
Andrò a Venezia come giurato
Sarà come andare al Luna-Park, con un senso di curiosità e diverti-mento: da ragazzo vedevo tre film al giorno, lo rifarò dopo tanto tempo
Lei andrà alla Mostra di Venezia come giurato.
«Sarà come andare al Luna-Park, con un senso di curiosità e divertimento. Da ragazzo era normale vedere tre film al giorno. Ora lo rifarò dopo tanto tempo, spero di vedere bei film, soffrirò per il timore di sbagliare giudizio, sono sicuro che hanno selezionato opere importanti. Io andai in gara con L’uomo delle stelle, che divise la critica, più o meno mi succede quasi sempre. Ero già stato nel 1992 in giuria, i commenti erano divisi, riuscii come mediatore a convincere il direttore Gillo Pontecorvo a dare l’ex aequo a Kieslowski e Altman. Era l’anno in cui Spielberg portò il primo Jurassic Park. Da una borsa floscia da viaggio tirò fuori un Leone d’oro: era quello che Pontecorvo aveva vinto 26 anni prima per La battaglia di Algeri. Gillo sbiancò. Spielberg lo aveva acquistato da un rigattiere».
E ricordi di Taormina?
«Nel 1986 fui premiato come miglior esordiente per Il camorrista. C’erano Ettore Scola, Fanny Ardant, Liliana Cavani, Francesco Nuti e un grande attore avanti negli anni, Glenn Ford. C’erano 40 gradi al teatro antico. Ford aveva i capelli tinti, in quel caldo infernale la tinta scolorò e un rigagnolo nero gli scese sul volto. Mi sembrò il finale di Morte a Venezia».
C’è il profumo di un’epoca, e le angosciose allegorie di Guttuso hanno il controcanto di un Quartetto drammatico di Schubert.
«Renato raccontò di suo padre intellettuale ma artista mancato che lo incoraggiò; della sua infanzia tra le botteghe di artigiani che costruivano i carretti siciliani dove lui fece qualche piccola decorazione; di come il suo pennello fu influenzato dai limoni; degli scambi creativi con Picasso, e Sciascia, Buttitta, Vittorini, Levi; dei rimproveri su di lui, organico alla sinistra, che girava in Mercedes e diceva, invece di avere una macchina scomoda ho una macchina comoda; delle differenze tra verità e realtà di una terra piena di cose anche brutte, ma dove l’intelligenza è quasi una virtù comune, e il senso della vita obbliga a una sosta, a fermarsi. Erano 40 anni che non rivedevo il documentario, mi ha colpito il privilegio di vivere un clima che noi non conosceremo mai. Oggi è tutto più rapido e sfuggente, e fare politica significa sapere con chi ti schieri sapendo che domani ti schieri con qualcun altro».