Corriere della Sera, 21 luglio 2024
Pasolini, i Servizi e il depistaggio dell’unico colpevole
Il poeta, regista e scrittore Pier Paolo Pasolini, autore di film e libri di successo oltre che di appassionati articoli che suscitavano grande scalpore e dibattito, fu ucciso nella notte tra l’1 e il 2 novembre 1975 all’Idroscalo di Ostia sul litorale romano. Il suo corpo venne ritrovato, martoriato da percosse e investito da una macchina, dopo che un ragazzo di 17 anni, Pino Pelosi, era stato fermato dai carabinieri alla guida dell’auto della vittima. Pelosi, originario della provincia e frequentatore della microcriminalità cittadina in cui si muoveva per raggranellare soldi attraverso piccoli reati e prostituzione minorile, confessò quasi subito l’omicidio collegandolo a un incontro omosessuale occasionale con il poeta. Le inchieste e i processi seguiti al delitto si sono limitati ad accertare la colpevolezza di quel minorenne.
L’ultima richiesta di riaprire le indagini, presentata per conto di un regista-sceneggiatore e di un giornalista-editore che tanto si sono dedicati alla ricerca della verità, è stata respinta il 20 novembre scorso, a quarantotto anni dal delitto. Tuttora misterioso nonostante la condanna di un colpevole. Ma secondo la Procura di Roma, al momento non c’è niente che non sia già stato fatto per provare a individuare gli altri esecutori e i mandanti dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini.
L’avvocato Stefano Maccioni, firmatario dell’istanza e a sua volta indomito inseguitore di nuovi indizi, chiedeva di tornare a interrogare il pentito della banda della Magliana Maurizio Abbatino, effettuare ulteriori esami e confronti di Dna, verificare ipotesi alternative. Ma i pubblici ministeri hanno ribadito che «tutte le indagini allo stato ragionevolmente possibili sono state svolte e non hanno avuto esito suscettibile di proficuo sviluppo».
Dopodiché la senatrice Ilaria Cucchi ha rivolto al governo un’interrogazione parlamentare per sapere «se risulti che uno o più atti relativi all’omicidio di Pier Paolo Pasolini siano coperti dal segreto di Stato». Risposta: la Procura ha detto di non saperne niente. Il che non significa che quel segreto non ci sia, ma solo che nessuno ci si è mai imbattuto. Altri magistrati invece, mentre indagavano sulla strage di piazza della Loggia a Brescia del 1974 hanno recuperato un documento che dimostra come i servizi segreti dell’epoca si interessassero all’attività di Pasolini.
Il fascicolo del Sid
È un rapporto del Sid, il Servizio informazioni difesa, del 16 marzo 1971, nel quale si riferisce che lo scrittore e regista, «noto» all’ufficio, era tra i finanziatori del movimento extraparlamentare Lotta continua. Un appunto a mano indica che sul suo conto lo stesso Servizio aveva aperto un fascicolo personale, il numero 2942. Di cui i titolari dell’inchiesta sull’omicidio non hanno mai avuto notizia.
Dunque il Sid, certamente coinvolto nei depistaggi sulle stragi del quinquennio 1969-1974, raccoglieva informazioni sull’artista che denunciava pubblicamente le responsabilità politiche di quegli stessi attentati; dal film-documentario 12 dicembre su piazza Fontana, prodotto nel ’72 proprio con Lotta continua, fino agli «scritti corsari» sul Corriere della Sera in cui disegnava gli scenari sottesi alla «strategia della tensione»: dal famoso «Io so, ma non ho le prove» all’auspicio di un metaforico processo alla classe dirigente democristiana per «connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna», quando con Bologna s’intendeva l’eccidio sul treno Italicus del 4 agosto 1974 (12 morti e 48 feriti) e non ancora quello alla stazione del 2 agosto 1980.
Nulla dimostra che il poeta è morto per quelle invettive. Ma tutto dimostra – a cominciare dai processi celebrati e dalle inchieste riaperte e richiuse – che non è morto ucciso dal «ragazzo di vita» Giuseppe Pelosi, detto «Pino la Rana», all’epoca diciassettenne, condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di prigione per omicidio volontario. «In concorso con ignoti», stabilì in primo grado il Tribunale dei minori; ma della presenza di complici non ci sono prove, replicarono i giudici d’Appello, restituendo credito all’ipotesi iniziale: un delitto estemporaneo maturato nell’ambito di un rapporto omosessuale cercato da Pasolini e poi degenerato. Sentenza confermata dalla Cassazione.
Tre complici «ignoti»
Il verdetto di secondo grado ha tuttavia ammesso il «mancato appuramento» del movente; e le successive indagini, pur senza individuarli, hanno determinato «l’incontrovertibile accertamento» di altri colpevoli. Almeno tre. Perché tante sono le tracce di Dna diverse da quelle di Pasolini e di Pelosi trovate sulla parte interna anteriore dei blue-jeans indossati dalla vittima, sulla maglia di «Pino la rana» e su un plantare ritrovato nella macchina del poeta. Reperti recuperati dal museo criminologico di Roma dove erano esposti; altri sono inspiegabilmente spariti, mentre l’Alfa Romeo GT di Pasolini utilizzata per finire la vittima dopo l’aggressione, a bordo della quale fu fermato Pelosi, risulta rottamata su disposizione di una cugina erede del proprietario. Elementi che si aggiungono alla trascuratezza, superficialità e fretta che caratterizzarono le indagini dell’epoca. Abilmente manovrate e inquinate dalle contrastanti e ondivaghe dichiarazioni dell’assassino «ufficiale» che fin da subito fa di tutto per addossarsi l’esclusiva responsabilità dell’omicidio come reazione – secondo il suo primo racconto – al tentativo di Pasolini di sodomizzarlo con un bastone.
Anche le sentenze di condanna ne hanno sottolineato l’inattendibilità, e a pena scontata lui stesso ha cambiato più volte versione (fino a dichiararsi semplice «spettatore» del delitto, accusando persone scomparse o sconosciute) prima della morte arrivata nel 2017. Ma nonostante le contraddizioni e le inspiegabili amnesie di «Pino la rana», evidenti da subito, gli accertamenti svolti dai primi investigatori sembrano fatti apposta per accontentarsi della sua unica colpevolezza. E rendere pressoché inaccessibile la verità per il futuro. Tanto più a venti, trenta o quarant’anni di distanza. È lo scopo ultimo di tutti i depistaggi: indicare una falsa pista (o anche solo incompleta), far trascorrere il tempo e impedire ad altri di percorrere quella giusta.
Errori e omissioni
Era impensabile che un ragazzo di 17 anni potesse ridurre in fin di vita un cinquantatreenne atletico e in forma com’era Pasolini, prima di ammazzarlo passandogli sopra con la macchina, con una tavoletta di legno utilizzata dai baraccati dell’Idroscalo per indicare un’abitazione. Ed è ingiustificabile non aver ascoltato nell’immediatezza le testimonianze di quegli stessi baraccati che avrebbero certificato la presenza di più persone. A cominciare dal pescatore intervistato da Furio Colombo per La Stampa che disse di aver sentito le voci di più persone che si accanivano sulla vittima, e mai ascoltato dai primi inquirenti; quando altri, nel 2010, sono andati a cercarlo hanno scoperto che era morto nell’89; i figli, però, hanno confermato le grida multiple sovrapposte a quelle di un uomo che invocava aiuto. Oppure il barista vicino alla stazione Termini citato da Oriana Fallaci su L’Europeo che, interrogato solo dopo 35 anni, ha confermato di aver ascoltato la telefonata di un ragazzo che diceva «mi raccomando, ho un appuntamento con Pasolini, fatevi trovare lì». Fino al titolare del ristorante Pommidoro, dove il poeta cenò l’ultima volta insieme all’attore Ninetto Davoli, il quale sentito la prima volta nel 2011 ha riferito che sull’ingresso Pasolini «si era messo a parlare con alcuni ragazzi».
Tutti elementi che, raccolti nell’immediatezza dei fatti, avrebbero potuto condurre a esiti ormai impossibili da raggiungere. Come la storia dell’appuntamento per recuperare le «pizze» con il girato del film Salò, che Pasolini stava preparando in quel periodo, possibile esca per attirarlo nella trappola; è stata ricostruita, tra incertezze e reticenze, a troppa distanza di tempo per essere coltivata con qualche risultato.
Trappola per l’agguato
Di un furto di pellicole cinematografiche commissionato dal proprietario di una bisca frequentata occasionalmente anche da Pasolini ha parlato nel 2022, alla commissione parlamentare antimafia, il pentito Abbatino che ha detto di aver partecipato al raid. È uno degli aspetti che si chiedeva di approfondire con la riapertura delle indagini, negata dalla Procura di Roma perché non spetta ai pm condurre accertamenti esplorativi dopo quasi mezzo secolo. Potrebbe forse farlo la commissione parlamentare d’inchiesta proposta da un gruppo di senatori di Pd, Cinque Stelle, Avs e Italia viva, in discussione a Palazzo Madama. Un ulteriore, forse ultimo tentativo di fare luce su un delitto rimasto oscuro. Non a sfondo omosessuale, come si è tentato di far credere, ma nel quale il sesso può essere stato il pretesto della trappola in un agguato a sfondo politico. Per eliminare l’intellettuale che diceva di sapere troppo sull’Italia delle bombe e delle trame. I giudici di primo grado misero in guardia dal «settario schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni politiche», pur essendo convinti che con Pelosi c’erano dei complici; certamente esistenti e rimasti ignoti. Con un movente sconosciuto. Coperto tuttora dal depistaggio dell’omicidio casuale di un artista ricco e famoso per mano di un ragazzino rimorchiato alla stazione.