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 2024  luglio 21 Domenica calendario

Biografia di Kamala Harris

«Abbiamo sempre visto in lei una donna ambiziosa e molto dotata, capace di brillare. Ma non avevamo mai pensato che potesse arrivare al vertice per la sua mancanza di disciplina, l’incapacità di focalizzarsi su ciò che davvero conta. Ha talento, ma è un diamante grezzo». Il giudizio su Kamala Harris di Gil Duran, che fu suo portavoce dieci anni fa quando lei era procuratrice capo della California, è una buona traccia per addentrarsi nella storia controversa di un personaggio che ha affascinato, diviso e poi deluso i progressisti americani.
E che ora potrebbe diventare la prima donna, per di più di colore, presidente degli Stati Uniti. O potrebbe, più probabilmente, essere sconfitta da un Donald Trump che vola nei sondaggi sulle ali del rischiato martirio e può contare sul sostegno di un’America sotterranea che non ha mai digerito l’afroamericano Obama e ora, tra misoginia e riserve a sfondo razziale, vuole sbarrare la strada a Kamala. Mentre lei non gode nemmeno dell’appoggio del suo partito: alcuni leader sono rassegnati all’inevitabilità della sua candidatura, visto il suo ruolo istituzionale, mentre altri democratici di peso stanno cercando di aprire comunque la strada ad altri candidati, in caso di ritiro di Biden.
Giorni tremendi per lei che sta cercando di riprendersi dai tanti passi falsi che hanno segnato i suoi tre anni e mezzo di vicepresidenza. E anche dai talk show nei quali, per renderla simpatica, la chiamano Momala (il termine usato dai figli di suo marito per evitare di chiamarla matrigna): l’America ha bisogno di un leader determinato non di una figura materna. Lei si sta sforzando, con un certo successo, di mostrarsi più presidenziale: sicura e fiduciosa negli ultimi comizi e nel rispondere per le rime a J.D. Vance, scelto da Trump come vicepresidente. Ma inseguita ovunque dalla sua fama di leader che fa discorsi poco centrati: divaga anziché andare al sodo. E, poi, Biden che prima l’ha salvata dal fallimento politico incoronandola vicepresidente (candidata anche lei per la nomination, non era riuscita nemmeno ad arrivare all’inizio delle primarie del 2020 per l’implosione del team della sua campagna, tra dispute che lei non ha saputo governare e fondi elettorali misteriosamente spariti), ma poi l’ha lasciata nella semioscurità. Dalla quale l’ha tirata fuori dandole la mission impossible di arginare l’immigrazione clandestina.
Quando, nel 2016, arrivò sulla scena politica nazionale, eletta a valanga senatore della California, furono in molti (compreso chi sta scrivendo questo articolo) a vedere in lei il possibile leader futuro dei democratici e di un’America che nel 2045 sarà in maggioranza di colore: per metà afroamericana (padre economista giamaicano) per metà indiana (madre professoressa universitaria impegnata nella ricerca contro il cancro), sembrava una sorta di versione femminile di Obama da proporre per il dopo Trump: competente (la carriera giudiziaria), tosta (dura nel punire i criminali, lasciando in carcere anche chi commette reati non violenti pur essendo politicamente una progressista), ambiziosa, ma apparentemente anche empatica e seducente tra sguardi scintillanti e sorrisi coinvolgenti.
Doppio gioco
Costretta a sostenere il «capo» a ogni costo, sarebbe già pronta a scendere in campo
Fin lì nella sua carriera aveva mostrato determinazione, abilità e una certa spregiudicatezza. Classe 1964, nata a Oakland, la città industriale sulla Baia, affacciata davanti a San Francisco, alla fine degli anni Novanta era riuscita a farsi strada nell’ufficio del district attorney di San Francisco sgomitando senza sosta (soprannominata per questo «gomiti aguzzi»). Quando si candidò ad attorney general della California promise che, da buona progressista, si sarebbe battuta contro la pena di morte. Vinse, ma poi in tribunale difese a spada tratta l’applicazione della pena capitale, pur continuando ad avversarla sul piano personale.
Da senatrice partì col piede giusto sulla tutela dell’ambiente, la lotta alla criminalità la difesa del diritto delle donne ad abortire, ma ben presto decise di tentare il trasloco da Capitol Hill, sede del Congresso, alla Casa Bianca. Trionfò nel primo dibattito tra candidati democratici accusando Biden di aver osteggiato negli anni Settanta l’integrazione razziale, penalizzando anche lei, allora bambina. Ma i dibattiti successivi furono per lei disastrosi e, incapace di evitare la dissoluzione del suo team elettorale, rinunciò alla candidatura prima dell’inizio delle primarie.
Recuperata da Biden che la scelse come vice senza farsi condizionare dall’affronto subito, Kamala è sempre apparsa una figura enigmatica. Incapace di incidere sui temi cruciali, abituata a rispondere anche alle domande più dirette con risposte prolisse e inconcludenti, è stata sbeffeggiata sui social per i sorrisi che troppo spesso diventano risate eccessive, sgangherate, fremiti di tutto il corpo. Ora cerca di dare un’immagine diversa, presidenziale. E può vantare anche una notevole esperienza in campo internazionale. Difficilmente basterà e, comunque, al momento è ancora costretta a sostenere in tutte le sedi che Biden resterà candidato e batterà senza alcun dubbio Trump.