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 2024  luglio 21 Domenica calendario

Intervista a Sergio Rubini


Sergio Rubini ha una vita avventurosa piena di altre vite.
Figlio di un capostazione, è un regista attore nato nel 1959 in un paesino agricolo pugliese che a 27 anni si ritrova protagonista di un film di Fellini, impersonando il grande regista: «Diventammo amici, lo chiamavo il mio zio buono». Con i suoi racconti si potrebbe andare avanti per ore, oscillando nel caldo afoso di Roma tra cinema, politica e amori.
Lei Rubini di amori ne ha avuti molti.
«Dopo la separazione da Margherita Buy potevo perdermi. Avevo avuto un numero spropositato di fidanzate. Fino a 38 anni ho combinato parecchi guai. A 39 ho incontrato Carla, che poi ho sposato, l’analisi e Domenico Starnone. Noi tre abbiamo scritto film insieme. Ed è cominciato il mio viaggio introspettivo, è cambiato il mio modo di vivere».
Cos’è cambiato?
«Prima ero alla ricerca dell’amore. A mia madre da piccolo chiedevo: sono bello? Lei: sei un tipo. E mi distruggevo. Andavo a caccia di conferme. Mi innamoravo alle 10 del mattino, il pomeriggio mi annoiavo, la sera fuggivo. Non fingevo mai, ci credevo... Ho fatto grandi casini, ho ferito e mi sono ferito».
Cambiava lei e stava cambiando il cinema.
«Ricordo Vittorio Cecchi Gori al tempo in cui era il primo produttore indipendente. Ero a casa sua, volevo parlargli del mio nuovo film, ma lui da presidente della Fiorentina aveva appena mandato via l’allenatore, Gigi Radice, per il disappunto di tutta la città. La prima partita la pareggiò, la seconda la perse. Era paonazzo, la camicia aperta, imprecava, urlava: voglio vedere bruciare Firenze!».
Poi però lei ha recitato in film internazionali: Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella, La passione di Cristo di Mel Gibson...
«Mel Gibson si basò sulla visione di una mistica del Trecento: gli ultimi dodici minuti di Gesù. Infatti, è un film al rallenty».
Lei era il ladrone buono sulla croce.
«Arrivai con l’approccio di attore europeo, ma un attore americano osa di più, come fece il nostro Gesù, Jim Caviezel, che pensava di poter fare miracoli: se ne andava in giro per le strade di Matera provando a moltiplicare pane e pesci».
Non semplice.
«Tanto più che a Matera non c’è il mare. Mi disse che Mel Gibson gli aveva proposto il film il giorno in cui compiva 33 anni, e per lui era stato un segno divino. Durante le riprese le apparizioni erano all’ordine del giorno: a chi appariva Gesù, a chi San Giuseppe. L’attore che impersonava Giuda assicurò che gli era apparsa la Madonna. Gibson si arrabbiò moltissimo, si trattava certo di un errore: a Giuda non poteva apparire la Madonna! Il set era pieno di preti lefebvriani, noi eravamo sulle croci disperati e infreddoliti e quelli dal basso ci mostravano le ostie consacrate. Gibson ci caricava: andrete in Paradiso, passerete delle serate fantastiche, in locali bellissimi. Insomma, il Paradiso di Mel era Las Vegas. Io non riuscivo a mischiare sacro e profano con la dimestichezza degli americani. Ho sofferto tantissimo quel film, mi sembrava tutto sbagliato, pensavo sarebbe stato un flop...».
Invece incassò moltissimo.
«Mel Gibson mi mandò una lettera con del denaro; ma mi fece impressione che sulla busta ci fosse l’effigie del Cristo. A lungo mi rifiutai di incassare l’assegno; mi arresi quando si ruppe la Smart e dovetti cambiarla».
Lei crede in Dio?
«Credo nell’assenza di Dio, o comunque mi immagino sia preoccupato in altre cose; e ne sento quotidianamente la mancanza. Se anche ci fosse, non sarebbe necessariamente misericordioso. Su quello, ho tanti dubbi. L’essere umano è così piccolo. Siamo un errore di percorso, non l’obiettivo finale, come invece, con un po’ di supponenza, pensano i credenti. L’aldilà è un solido nulla, rispondo con Leopardi su cui sto indagando come regista. Però mi piacerebbe tanto crederci».
Lei ha lavorato con Depardieu, è stato suo amico. Cosa pensa delle accuse di molestia?
«Credo nella sua innocenza. Gérard può mettere in imbarazzo, è volgare ma in senso mozartiano, come Mozart quando diceva cacca-cacca. Non è l’attore che in accappatoio aspetta l’attrice in camerino, non è un orco, è dolce e fragile. Secondo me è più preda delle donne che predatore».
La destra rivendica una nuova egemonia culturale nel Paese, dopo gli anni della sinistra. Ora si punta su film e serie dedicati a eroi italiani.
«In termini generali, sono d’accordo che noi italiani dobbiamo raccontare la nostra storia. Se non fossimo noi ma altri sarebbe un impoverimento, tanto che ho visto con sospetto l’acquisizione all’estero di tante società audiovisive italiane. Che si tratti di un arricchimento per il nostro Paese, non sono sicuro fino in fondo: non si manda avanti un’economia solo perché paghi le tasse. La parte più pregiata del denaro è il profitto, è quella che produce ricchezza. Nel caso di questi soggetti stranieri quella parte va all’estero. Senza contare il tema della narrazione. Quando vedo documentari sulla Roma imperiale appannaggio di società straniere provo tristezza e malinconia. Siamo in un libero mercato, ci mancherebbe: ma allora che si dia un premio anche agli imprenditori che non vendono».
E il tema dell’appropriazione culturale?
«Qui il discorso cambia perché è in atto un approccio ideologico. Che i neri parlino dei neri e i bianchi dei bianchi mi sembra una cosa fuori dal tempo. Quindi ognuno può parlare di chiunque, e proprio per questo è opportuno che per conservare la propria storia ogni comunità si preoccupi di raccontarla in prima persona. Qui da noi oggi è il lessico, che è sostanza e non mera forma, a insospettirmi. Il linguaggio populista mi dà l’impressione di fare un passo indietro. Penso al patriottismo, alla divulgazione di una certa Italia. Mi preoccupa il revisionismo che si nasconde dietro tutto questo. Il fatto che il ’900 sia finito non ci autorizza a pensare di poter dimenticare o modificare il racconto delle brutture che ha prodotto».
Cosa pensa dell’Intelligenza artificiale al cinema?
«È un tema che noi artisti dovremmo affrontare più approfonditamente. Molte storie sono progettate da un algoritmo. Certo, la tecnologia ci aiuta in tutto, penso alla medicina. Ma nella narrazione l’utilizzo dell’algoritmo è studiato perché alla fine gli spettatori comprino qualcosa: l’essere umano viene narcotizzato perché si trasformi in cliente. Tutto ciò va regolamentato prima che sia troppo tardi, ed è compito della politica, quindi di tutti noi».
La sua famiglia come la pensava?
«Mio padre e mio nonno erano ferrovieri. E i ferrovieri una volta erano tutti socialisti. Forse perché viaggiando erano aperti al mondo e alle sue diversità. La stazione è il mio primo film e il mio primo luogo. Mio papà era frustrato, voleva fare il pittore ma non gli fu permesso. Per questo non voleva che andassi da lui in stazione».
Perché?
«Perché non voleva che mi sentissi costretto a fare il suo mestiere. Da lui ho ereditato tantissime cose. Con i suoi amici aveva una Filodrammatica e io, pur se con sospetto, accettai di farne parte. Tutto ciò che sono diventato lo devo a quelle serate. Ho un’ansia del fare che mi porto dentro. Ma ho la sensazione che il meglio di me lo devo ancora dare. Quel che mi resta da fare è tutto quel che non ho ancora fatto».