Corriere della Sera, 21 luglio 2024
Il Palazzo in ferie e gli inciuci estivi
Si pensa bene, d’estate, nei giornali. Volendo, possono venire delle buone idee. C’è meno frenesia, qualcuna torna abbronzata, qualcuno sta per partire ed è di ottimo umore. Certo, ci sono sempre piccole beghe sull’aria condizionata: chi la vuole alta, chi bassa. Però nascono anche amori leggeri e spensierati, con pettegolezzi a seguire.
Si sta bene, in redazione: e nessuno invidia i cronisti che devono uscire nell’afa quando arriva la notizia di un delitto. La gente uccide di più quando fa caldo. La politica, invece, tende a placarsi.
Così, un tempo, ci riunivamo per decidere quale ministro o segretario di partito o personaggione fosse opportuno seguire in vacanza. Ma erano figure piene di fascino, capaci di ragionamenti profondi, con crisi di governo da scatenare in autunno e accordi bizantini, trame, inciuci memorabili per evitarle.
Tra memoria e ritagli ingialliti.
Con un filo di nostalgia canaglia.
Ecco, leggete: questo è Paolo Guzzanti, che Eugenio Scalfari, leggendario direttore di Repubblica, il 18 agosto del 1986 spedisce in Tunisia, ad Hammamet, sulle tracce di Bettino Craxi, all’epoca Presidente del Consiglio. L’incipit di Guzzanti (scriveva benissimo, talento puro, poteva diventare come Giorgio Bocca o Bernardo Valli): «Ma quel signore alto e pelato in calzoncini corti e casacca che fende la folla del vicolo, tra cataste di ceste e galabeye, non è Bettino Craxi? Certo che è Craxi, però in versione estiva. Anzi, africana». Lo vede avanzare con in mano un mazzetto di gelsomini profumati, abbracciare un mendicante sordomuto, salutare in francese i bambini del suk. Decide di fermarlo e parlarci. E Craxi, ad un certo punto, come in una premonizione: «In Italia ci sono anche quelli che volentieri mi accopperebbero...».
Un anno dopo, il 16 agosto, da via Solferino parte Vittorio Feltri, in quel periodo giovane e brillante inviato del Corriere. Va a Nusco. Sullo sfondo i boschi scuri dell’Irpinia, e poi – entrato in un solido palazzo circondato da prati ben rasati – sale una scala, percorre un corridoio nella penombra e sbuca su una terrazza assolata dove «Don Ciriaco è seduto al tavolo e, tanto per cambiare, gioca a carte. Indossa una camiciola gialla sbottonata che lascia intravedere un crocefisso di genere cardinalizio...». Ciriaco De Mita, gran sultano diccì, si fa subito raccontare da Feltri la perfida storiella che gira in quelle settimane («Dunque – attacca Feltri – si è sparsa la voce che lei stia seguendo un corso di dizione per correggere l’accento avellinese che offre facili spunti all’ironia dei vignettisti. La notizia giunge a Torino e non sfugge a Gianni Agnelli, che scuote la testa e, arrotondando la “erre”, commenta: “Bravo merlo, così non lo capiranno più neanche a Nusco”»). Attimo di suspense, quindi risata rompighiaccio. Con De Mita che inizia a parlare di Bettino Craxi e di Giovanni Goria, diventato nel frattempo premier, e al quale avrebbe soffiato la poltrona appena otto mesi più tardi.
Capito? Craxi, De Mita, Goria. S’andava in giro a cercare tipi così. E già, intendiamoci, erano un lontano ricordo i reportage alla ricerca di Aldo Moro (nel 1972, il fotografo Vezio Sabatini l’aveva sorpreso sulla spiaggia di Terracina, litorale a sud di Roma, tra pattini e ombrelloni: indossando un abito in fresco di lana grigio chiaro, le scarpe nere, lucide, e nera anche la cravatta, lo statista democristiano è seduto su una sdraio davanti a sua figlia Agnese, in costume): e avevamo ormai mollato anche la caccia a Giulio Andreotti, che a Cortina era solito alloggiare nel collegio delle suore Orsoline e, quando il sole doveva ancora sorgere, usciva da una porta laterale, per sparire subito dentro il sentiero che entrava nel bosco buio.
Però qui, davanti al materiale dell’archivio, la sensazione è netta: il primo, vero cambiamento arriva con l’inchiesta Mani Pulite. Quando le stagioni si sovrappongono come gli ordini d’arresto, l’inverno diventa subito estate, e sempre lì si sta, a Milano, di sentinella al Palazzo di Giustizia: e ci si muove, a Ferragosto, solo per seguire un’Alfa scura, che punta a Sud, in direzione Montenero di Bisaccia, Molise. Il 72% degli italiani vorrebbe trascorrere le vacanze insieme ad Antonio Di Pietro e allora partiamo e andiamo a raccontare il suo mondo antico, la sua fattoria, lui che sale sul trattore, la folla dei paesani che s’accalcano al cancello dell’«eroico magistrato!» (urlavano proprio così) e i carabinieri che fanno cordone, largo, fate largo, non spingete, e però anche loro contenti di esserci, di stare dentro una storia formidabile.
Con onestà intellettuale, bisogna ammetterlo: a quel punto, pensavamo di aver davvero visto tutto.
E invece, no.
Eravamo all’alba di un’epopea.
E forse abbiamo cominciato a capire cosa fosse il berlusconismo proprio in un’altra estate: quella, indimenticabile, del 1995. Quando dalle Bermuda giunge la fantastica foto del Cavaliere in compagnia dei suoi amici: Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Adriano Galliani, Carlo Bernasconi. Tutti vestiti di bianco e tutti con «il sole in tasca», come disse Berlusconi, che prometteva, grazie a Forza Italia, di prendersi, e cambiare, il Paese.
In meglio? In peggio? Nove anni dopo, sempre di agosto, teleobiettivi e microfoni in Sardegna, fuori Villa Certosa, luogo mitologico. Con lui, il Berlusca, travestito da pirata: in testa, la mitologica bandana. Tony Blair e la moglie, suoi ospiti, lo osservano basiti: ma lui ride tronfio, eccitato. Milioni di italiani – poche ore dopo – sono sulle spiagge con lo stesso copricapo. Storditi. E conquistati. Vogliono essere come lui. Che, due anni più tardi, nella sua tenuta sarda organizza un finto terremoto e allestisce un finto vulcano.
Telefonavi al giornale: e non ti credevano. «Un vulcano, scusa, in che senso?». Chi capitava a Ponte di Legno, al seguito di Umberto Bossi, almeno raccontava di lunghe partite a carte. Davanti alla villetta dei coniugi Ciampi, a Santa Severa, una noia mortale.
Un anno, fu però divertente seguire Massimo D’Alema sull’isola di Ponza: con lui che entrava in porto al timone del suo veliero Ikarus e noi cronisti felici ad aspettarlo seduti ai tavoli dell’Acqua Pazza, un Franciacorta nel ghiaccio e Gino Pesce che preparava squisiti spaghetti ai ricci di mare. Ma si capiva che stava venendo giù tutto.
Poi avremmo visto Matteo Salvini a torso nudo, sudato, che vuotava mojito al Papeete Beach e chiedeva i «pieni poteri» e Matteo Renzi che andava a sciare sull’Himalaya, Ignazio La Russa al Twiga di Flavio Briatore e Alessandro Di Battista che faceva il barman sulla spiaggia di un alberghetto a Ortona.
Quest’anno si resta in redazione. Tra l’altro, al distributore automatico, in corridoio, è pure finita l’acqua frizzante.