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 2024  luglio 20 Sabato calendario

La povertà culturale delle élite italiane che leggono solo da smartphone e device


Interno treno, business class. Osservando con sguardo etnologico i passeggeri c’è qualcosa che colpisce da un po’ di tempo a questa parte. L’assenza di carta stampata di qualsivoglia genere, dai giornali ai libri. Una sorta di messa al bando della civiltà alfabetica sulla prima classe dell’alta velocità ferroviaria, quella frequentata dalle classi dirigenti del Paese. Anche perché se vale, in maniera plateale, nel caso italiano, non è affatto lo stesso per altri contesti nazionali. Naturalmente, generalizzare non è mai l’approccio corretto, men che meno dalle parti delle scienze sociali. Nondimeno, valutando in prospettiva “storica” (e, comunque, lungo il lasso di tempo che ci separa dalla comparsa di questa tipologia di trasporti molto rapidi), non si può fare a meno di annotare come siano scomparse quelle piattaforme cartacee – di aggiornamento e studio – che un tempo connotavano le élite.
Sostituite, in quella tendenza verso l’uniformità comportamentale e dei consumi culturali imposta dall’orizzontalizzazione, dagli abituali device digitali utilizzati da tutti, secondo l’ossessiva modalità del “di tutto, di più”. Se la distinzione anche sotto il profilo del capitale culturale costituiva, secondo Pierre Bourdieu, uno dei pilastri della specificità e dell’esclusivismo del potere delle élite, l’omologazione sembra invece farla da padrona da parecchi anni. E, più in generale, da quelli del consolidamento della postmodernità in Italia, che sul piano della vita pubblica ha coinciso con l’archiviazione della scoppoliana “Repubblica dei partiti” in seguito agli scandali di Tangentopoli e con l’ascesa – convertitasi in un fenomeno strutturale e permanente – dell’antipolitica e dell’alta marea dei vari generi di neopopulismo. A cui, dal punto di vista politico (o, per meglio dire, antipolitico e postpolitico), va appunto ascritto anche il berlusconismo, che tanta influenza ha esercitato sul periodo successivo contribuendo a mettere in crisi e spodestare – si sta, naturalmente, facendo un’operazione di semplificazione e forzatura, utile tuttavia per cogliere nei suoi aspetti fondamentali un processo generale – l’egemonia culturale della sinistra.
Oggi che di egemonia culturale si torna esplicitamente a parlare a proposito del dichiarato tentativo da parte del partito di maggioranza Fratelli d’Italia di realizzarne una in contrapposizione a quella – tramontata – “di segno progressista”, la vittoriosa operazione (sotto)culturale berlusconiana riemerge in tutta la sua potenza (anche evocativa).
Esito della capacità dell’imprenditore-politico scomparso nel giugno del 2023 di «farsi concavo e convesso» (sua citazione letterale), ovvero di incarnare un durevole spirito del tempo che ha ampiamente travalicato gli anni Ottanta e Novanta per giungere sino a quello presente, seppure all’insegna di un rovesciamento di segno che dal populismo ottimistico e col «sole in tasca» ha condotto a quello “retrotopico” e reazionario-regressivo attualmente in circolazione. In ogni caso, a dispetto delle volontà di controegemonia della destra di governo italiana, l’egemonia simbolica autentica rimane quella di (ormai) “lunga durata” prodotta dalla televisione commerciale – come ha ribadito nel suo Destra maldestra (Chiarelettere, 2024) Alberto Mattioli – alcune componenti della cui logica mediale risultano perfettamente adattabili a quella dei social network e dei media orizzontali a larghissima fruizione collettiva. Proprio in quel contesto, per molteplici ragioni, e venendo rilanciato vieppiù dall’orizzontalizzazione della comunicazione digitale e dell’autocomunicazione di massa, si sono consumati il declino, fino alla scomparsa definitiva, della politica pedagogica e il dissidio tra potere e sapere, con la delegittimazione costante – salvo durante le parentesi della pandemia e dei governi tecnocratici – del secondo. Un processo che ha coinvolto anche la sinistra, percorsa da ondate populiste sempre più marcate in sintonia con lo Zeitgeist, e che è stato rivendicato con orgoglio da vari ambienti delle stesse classi dirigenti elettive.
Il neopopulismo dell’età postmoderna si è così innestato su una crisi epistemologica ormai di lunga durata, raccogliendone i “frutti” spesso avvelenati. La destrutturazione di ogni forma di verità nelle pratiche discorsive e il relativismo assoluto hanno aperto una sequenza di faglie e scavato quei solchi da cui sono fuoriusciti (o si sono riaffacciati notevolmente potenziati) prototipi di complottismo e cospirazionismo, il narcisismo e il soggettivismo esasperato quali parametri totalizzanti (e “totalitari") di giudizio individuale sulla realtà, la denigrazione della scienza e la sua equiparazione a una narrazione fra le tante (un paradigma concettuale direttamente discendente anche dalle varie formule di anarchismo epistemologico degli anni Sessanta e Settanta).
Una sequenza di fenomeni che hanno predisposto l’humus per l’impoverimento lessicale, se non la vera e propria povertà educativa, di una parte non trascurabile, per l’appunto, dei medesimi gruppi dirigenti, saldandosi con la disintermediazione linguistica e l’inseguimento a tutti i costi dell’elettorato, con l’accompagnamento del relativo processo di dumbing down, connaturato peraltro alla cultura pop e ai suoi media, caratteristici del paradigma della following leadership.
Un ulteriore volto dell’equivoco dell’"autenticismo” e del “direttismo democratico”, che si traduce nel “parla come mangi”. E che asseconda e conferma numerose preoccupazioni sul futuro dei nostri sistemi rappresentativi liberaldemocratici, fattisi da tempo “democrazie del leader” e “del pubblico”, sconvolte da una crisi verticale di credibilità e di legittimazione di chi siede al governo – principalmente mediante partiti personali – e duramente sfidate dalla complessità crescente delle problematiche del mondo contemporaneo. —