la Repubblica, 20 luglio 2024
Tra il 22 e il 23 luglio 1944 i soldati russi raggiunsero Majdanek dove si imbatterono per la prima volta in un lager nazista
«Quando abbiamo visto che cosa (Majdanek) conteneva, ci siamo sentiti pericolosamente vicini a impazzire». Dalla testimonianza del soldato sovietico Vasily Yeremenko sulla liberazione del lager di Majdanek. Ma in quale tragica realtà si erano imbattuti i russi?
Quando iniziò l’offensiva finale dell’Armata Rossa, nel giugno del 1944, la sproporzione delle forze in campo fu subito chiara: i sovietici mettevano in campo 2 milioni di soldati, meglio armati dei 400.000 della Wehrmacht schierati sul fronte orientale, ormai esausti e demora-lizzati, anche per la gestione, in condizioni difficilissime, del rimpatrio forzato in Germania della popolazione tedesca. Si impose dunque la chiusura di gran parte dei campi ubicati nell’Est. A fine giugno fu liquidato il campo estone di Vaivara e alcuni suoi sottocampi; a luglio toccò a quelli di Kaunas e al complesso di Majdanek, uno dei più estesi e duri lager nazisti. Aperto nell’ottobre del 1941 nella periferia della città di Lublino, può essere definito un lager multifunzionale o polivalente: svolse infatti il ruolo di campo per prigionieri di guerra, di luogo di punizione, di campo di transito, di campo di lavoro, di campo di sterminio, con camere a gas che utilizzarono sia lo Zyklon B, sia il monossido di carbonio. Fu anche usato come luogo di esecuzioni di massa.
Fino all’estate del 1942, oltre a prigionieri di guerra sovietici, ai contadini e ostaggi polacchi, bielorussi, ucraini e russi, furono qui deportati ebrei slovacchi, del Reich, ma soprattutto polacchi, che vennero sterminati attraverso il lavoro e per le terribili condizioni igienico-sanitarie. Dal mese di luglio Majdanek divenne un vero e proprio campo di messa a morte, e ad ottobre si incominciò ad uccidere col gas, mentre fino ad allora il metodo utilizzato era stato quello delle fucilazioni in un bosco vicino. Le camere a gas vennero costruite in un edificio di mattoni chiamato Bunker, composto da 4 locali, 3 stanze e un piccolo sgabuzzino in cui erano poste le bombole di monossido di carbonio collegate all’interno di una stanza con delle tubature. Nel soffitto di una delle stanze si fecero delle aperture per l’introduzione del Zyklon B. Per liquidare i corpi vennero messi in funzione anche forni crematori. Ma pure per i non ebrei Majdanek divenne un lager in cui sopravvivere era estremamente difficile.
Nel 1943, venne attivato un nuovo gigantesco Krematorium e, oltre agli ebrei, arrivarono altrettanti prigionieri politici polacchi, così come cittadini sovietici vittime di rappresaglie. In ottobre le autorità naziste ritennero che non ci fosse più bisogno degli ebrei ancora impiegati nel lavoro schiavo: anche questi dovevano essere eliminati. Alcune settimane prima si scavarono tre fosse enormi a forma di zig-zag, lunghe 100 metri e profonde quasi 3; poi arrivarono tra i 2 e 3.000 assassini da tutti i distretti, anche da Auschwitz, per uccidere, col personale locale, tutti gli ebrei di Majdanek e dei suoi campi di lavoro. Il massacro, definito Aktion Erntefest (festa della mietitura), ebbe luogo il 3 e 4 novembre1943, con colpi di fucile e mitragliatrici. Le vittime furono 42-43.000, 8.000 solo a Majdanek, dove, separate dai prigionieri non ebrei, furono raggiunte da altri 10.000 ebrei provenienti dai campi di lavoro. Le guardie obbligarono tutti questi a spogliarsi e a sdraiarsi nelle grandi fosse, poi spararono loro alla nuca o li fucilarono con le mitragliatrici. Non tutti morirono subito. Perchési sentissero il meno possibile gli spari, una musica allegra venne diffusa in tutto il campo ad altissimo volume da altoparlanti collocati su due camioncini (valzer viennesi, tanghi e marce). Alla sera, molte SS volontarie festeggiarono ubriacandosi con la vodka.
Fu il più grande massacro compiuto in un solo giorno in un campo di concentramento, Auschwitz compreso. Con questa Aktion finì il ruolo di Majdanek nella Shoah. Dalla fine del 1943 al marzo del 1944 il lager divenne un luogo di morte per prigionieri malati di altri campi nel Reich (8.000 circa) e per i civili polacchi condannati a morire. In questi mesi furono deportati anche molti italiani – nella quasi totalità arrestati da italiani, non da tedeschi –, generalmente inseriti in trasporti da altri lager del Reich. Dobbiamo le informazioni sulle vicende di queste persone all’accurato e prezioso lavoro di due insegnanti torinesi: Antonella Filippi e Lino Ferracin. I soli freddi numeri ci fanno comprendere la tragica sorte che toccò a questi sfortunati connazionali: dei primi 102 che giunsero da Dachau ne ritornarono solo 9; dei secondi 17, sempre da Dachau, più “fortunati” perché inseriti in un Kommando di lavoro, tornarono in 7; dei 13 deportati da Buchenwald e da Mittelbau-Dora solo 1; dei 36 giunti da Flossenbürg solo 2; dei 46 deportati da Neuengamme non tornò nessuno. Queste persone rappresentavano uno spaccato dell’intera penisola, soffocata da una ventennale dittatura e martoriata da una partecipazione a una catastrofica e detestata guerra. Da aprile a luglio, periodo in cui le condizioni di vita divennero tra le peggiori di tutto il sistema concentrazionario, ebbero luogo i trasferimenti in previsione della fine dell’attività del lager. Il 22 luglio si procedette alla sua liquidazione: furono incendiati molti edifici e venne effettuata l’ultima evacuazione di prigionieri, ben oltre 1.000, che sitrasformò in una vera e propria marcia della morte: ad Auschwitz arrivarono solo 452 uomini e 156 donne. La notte tra il 22 e il 23 luglio 1944 l’Armata Rossa raggiunse Majdanek, con i suoi quasi 1.000 prigionieri rimasti, quasi tutti sovietici invalidi o feriti. I liberatori ebbero subito in mano le prove dello sterminio di massa: le camere a gas, le confezioni di Zyklon B, le fosse comuni dell’Aktion Erntefest, centinaia di paia di scarpe e migliaia di documenti personali appartenuti alle vittime, il Krematorium con i forni “ancora caldi”. Lo stesso giorno venne creata una commissione polacco-sovietica con lo scopo di documentare la condotta criminale dei tedeschi. Parte del lager venne aperto agli abitanti di Lublino, ai familiari delle vittime e ai corrispondenti di guerra perché lo visitassero. In ottobre l’ex lager fu riconosciuto come proprietà del museo, che iniziò a funzionare un mese dopo. Fu dunque il primo di questo tipo (museo-martirologio) ad essere attivato nell’intera Europa, ben prima della fine del conflitto. Nonostante la liberazione di questo campo avesse mostrato l’evidenza della condotta omicida nazista e della spaventosa realtà della Shoah, pochissime notizie vennero diffuse nel resto dell’Europa e ancor meno furono le reazioni del mondo libero. Ciò non avvenne nemmeno quando, dal 27 novembre al 2 dicembre, ebbe luogo il primo processo contro quattro membri delle SS e due Kapos di Majdanek. Uno si suicidò, gli altri furono condannati a morte e impiccati il 3 dicembre. Questo il bilancio finale: quasi 170.000 persone vennero deportate a Majdanek; di queste, oltre 80.000 furono gli ebrei, almeno 60.000 dei quali vennero uccisi o morirono. Gli italiani, tutti non ebrei, furono almeno 224. La loro sorte fu tra le peggiori: quasi il 90% non ritornò a casa. Un tasso di mortalità spaventoso, una tragedia di cui nella corresponsabile Italia non è mai esistita e non esiste ancora memoria.