il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2024
Se i leader sono forti e i partiti deboli, democrazia in pericolo
Dall’America all’Europa, il carisma delle leadership tende a prevalere sui partiti, in quanto organizzazioni strutturate per la raccolta e l’aggregazione del consenso, svuotate ormai dalla personalizzazione della politica e dall’astensionismo elettorale. È anche questo un effetto mediatico del protagonismo e dell’individualismo alimentati a livello collettivo dall’avvento di internet e dei social network. E innesca una deriva cesarista che spinge le democrazie parlamentari ad assumere un assetto assolutista e autoritario che può preludere a un’involuzione verso il dispotismo.
Ne abbiamo, purtroppo, diversi sintomi nel nostro Paese sotto l’attuale governo delle destre. Quando si arriva a minacciare fino a 25 anni di carcere per chi manifesta contro la realizzazione di un’opera pubblica, il rischio è quello di soffocare il dissenso e la protesta. E quando si abolisce il reato di abuso d’ufficio o s’introduce l’obbligo dell’interrogatorio per avvisare gli spacciatori cinque giorni prima di arrestarli, s’incentiva di fatto l’illegalità diffusa.
Il peggio è che tutto questo avviene svilendo il Parlamento e il suo potere legislativo ridotto ormai a potere esecutivo, nel senso letterale del termine: e cioè che esegue la volontà del governo e approva i provvedimenti che questo emana, per lo più sotto forma di decreti-legge. Mentre dovrebbe essere esattamente il contrario. Dall’insediamento del governo Meloni, come ha calcolato il sito di fact-checking Pagella Politica, le due Camere hanno approvato 105 leggi, di cui 65 decreti-legge pari a circa il 52%, la gran parte dei quali non corrispondevano certamente ai requisiti di “necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione.
A questo abuso della decretazione d’urgenza s’aggiunge l’abuso dei voti di fiducia. Uno strumento per impedire ai parlamentari, attraverso l’appello nominale e lo scrutinio palese, di modificare i provvedimenti emessi da palazzo Chigi. Ed è accaduto perfino con la legge finanziaria, negando ai deputati e senatori della stessa maggioranza di presentare emendamenti. Siamo all’esproprio delle prerogative parlamentari a tutto favore dell’esecutivo.
Se poi si pensa che questo stesso governo intende introdurre il cosiddetto premierato, anche a rischio di affrontare un referendum, risulta evidente la deriva autoritaria e plebiscitaria con cui Giorgia Meloni punta a manomettere la Carta costituzionale alterando l’equilibrio dei poteri. Da un lato, s’indebolisce il Parlamento; dall’altro, s’indebolisce il Quirinale con l’elezione diretta del Capo dello Stato. Basta dire che il presidente della Repubblica, oltre a non nominare più i senatori a vita, non potrebbe insediare il presidente del Consiglio né sciogliere il Parlamento nel caso in cui venga meno la maggioranza, per rendersi conto che a quel punto non esisterebbero più i “pesi e contrappesi” che regolano la vita di una democrazia.
Per non parlare infine dell’informazione, il cosiddetto “quarto potere”, mortificato dalle concentrazioni editoriali della stampa padronale e dalle leggi-bavaglio, come quella sull’uso giornalistico delle intercettazioni telefoniche. Il cerchio, dunque, si stringe. E non c’è che da “innescare una mobilitazione dal basso” – come auspica Gianni Cuperlo – all’interno della società civile, per contrastare questo giro di vite e costruire un’alternativa democratica e progressista.