la Repubblica, 19 luglio 2024
John Landis, regista diAnimal House eThe Blues Brothers , racconta così il suo primo incontro con John Belushi, star dei due film: «Belushi era a New York per ilSaturday Night Live .
Io arrivai da Los Angeles e la Universal mi mise in un albergo di lusso. John entrò nella mia stanza e, prima di presentarsi, mi chiese: “C’è il servizio in camera in questa topaia?”. Senza aspettare risposta alzò il telefono, chiamò il ristorante e ordino una cena per dieci persone. Poi mi disse: “Ok, cos’è questo film?”. Gli raccontai Animal House e il personaggio di Bluto Blutarsky. Non mi lasciò finire: “Fantastico, lo faccio”, mi strinse la mano e se ne andò. Mentre usciva, con un tempo comico degno dei fratelli Marx, entrarono quattro o cinque camerieri con il cibo che aveva ordinato. Mi ritrovai da solo in camera, con non so quanti cocktail di gamberi che non sarei mai riuscito a mangiare».
È una storia che Landis ci ha raccontato tanti anni fa. Un aneddoto di prima mano. Tutto ciò che stiamo per dirvi viene invece dal libroThe Blues Brothers, scritto da Daniel De Visé e appena uscito in Gran Bretagna (edizioni White Rabbit). Non è solo la storia del film. È la storia dei fratelli Blues, due musicisti vestiti come impresari delle pompe funebri nati dalla fantasia di Dan Aykroyd durante la quarta stagione del Saturday Night Live,lo show della NBC che rivoluzionò la comicità americana. Era il 22 aprile 1978. La prima apparizione di Jake e Elwood Blues nello show. Cantarono Hey Bartender, un pezzo reso famoso negli anni ’50 da Floyd Dixon. Poteva anche finire lì, un’esibizione una tantum. Invece i personaggi evolsero, e oggi sono nel mito.
De Visé la prende alla larga. Ricostruisce le biografie di Belushi e Aykroyd, e ripercorrerle è interessante, perché scopriamo che il vero “delinquente” era Dan, il canadese elegantone. Belushi veniva da una famiglia albanese piccolo-borghese che a Chicago si faceva passare per italo-americana perché sembrava più rispettabile. Studiò al college, avrebbe potuto condurre una vita “normale”. Ma era un formidabile imitatore e il suo primo cavallo di battaglia fu l’imitazione di Joe Cocker a Woodstock. Era un poderoso fumatore di erba ma tutto andò a rotoli quando incontrò la cocaina. Invece Dan, in Canada, era un vero freak. Aveva la sindrome di Tourette, un quoziente intellettivo altissimo, un occhio castano e un occhio verde ed era nato con la sindattilia, una malformazione alle dita dei piedi, unite da una membrana: insomma, aveva le pinne. Amava visitare le agenzie di pompe funebri e pensò a lungo di farsi prete. La sua vita cambiò quando per puro caso si trovò a suonare la batteria per Muddy Waters, leggenda del blues. Era lui il musicista “in missione per conto di Dio”: ideò e scrisse The Blues Brothers per ridare ai musicisti afroamericani la popolarità che il rock e la disco avevano loro sottratto. Il film fu una specie di anti Febbre del sabato sera.
Il look dei fratelli Blues fu un mix di Lenny Bruce, lo sboccatissimo comico ebreo, e del bluesman B.B. King. Fu sempre Aykroyd a coinvolgere i grandi del r’n’b, da Ray Charles ad Aretha Franklin. Per il ruolo del predicatore voleva Little Richard, che rifiutò: la scelta cadde su James Brown, una manna dal cielo.Il primo copione di Aykroyd si intitolavaThe Return of the Blues Brothers ed era di 342 pagine, che Landis ridusse a 120. La lavorazione fu catastrofica (il budget si impennò a livelli stratosferici) e tragicomica. Basterà sapere che l’inseguimento automobilistico nel centro commerciale fu girato in un mall abbandonato, e riarredato dalla produzione con costi iperbolici. La sera in cui dovevano girare, con migliaia di persone e tecnici in attesa, Belushi sparì. Aykroyd andò a una casa lì accanto e suonò il campanello. Un uomo gli aprì. «Stiamo girando un film», disse Dan. «Sì, me ne sono accorto», rispose l’uomo, un po’ scocciato. «Sto cercando l’attore protagonista»; «È un tizio tarchiato con gli occhiali scuri?»; «Sì, l’ha visto?»; «È entrato in casa mia due ore fa, ha svuotato il frigorifero e adesso dorme sul mio divano».
The Blues Brothers non fu un successo, ma nel tempo è diventato un film “cult” e irripetibile: oggi nessuno, a Hollywood o altrove, produrrebbe un film così pazzo, costoso, logisticamente impossibile, scorretto. Ma la missione per conto di Dio è andata a buon fine, e rivedendolo possiamo dire, citando una famosa battuta: «Ti ho sempre amato».