Corriere della Sera, 19 luglio 2024
Intervista a Julio Velasco
Nella forza con cui sta affrontando questi giorni difficili c’è tutto Julio Velasco. Lunedì a Madrid è mancato il fratello maggiore Raul, lui è rimasto al Centro Pavesi di Milano circondato dal suo staff e dalle sue ragazze: lunedì volerà a Parigi per la sua quarta Olimpiade, la terza in azzurro.
Velasco, come sta?
«È una ferita profonda, ma non posso mostrare alle ragazze il lato triste. Nella disgrazia, sono fortunato a essere circondato dalla squadra: ho una responsabilità e il ruolo mi aiuta a distrarmi, ma la sera, quando sono solo in camera, la testa va lì».
La responsabilità è essere alla guida di una Nazionale molto forte?
«Quando ho iniziato, sapevo di avere una squadra con giocatrici forti. Non ho badato al pessimismo che c’era intorno a queste ragazze e che spesso prende il sopravvento quando i risultati non arrivano. Siamo concentrati solo sui Giochi, sappiamo che lo spartiacque tra possibile successo e fallimento è il quarto di finale e vogliamo giocare per le medaglie. La squadra sta lavorando bene, è in salute».
Anche perché una Paola Egonu così determinante non la si vedeva da un po’.
«Non dimentichiamo, però, che questo è uno sport di squadra. Abbiamo cercato di sfruttare maggiormente le centrali e questo, inevitabilmente, ci ha reso più imprevedibili. È un equilibrio in cui tutte hanno un ruolo perché ricevere bene facilita il gioco al centro e così via».
L’anno scorso il gruppo sembrava averla un po’ messa ai margini.
«Ho detto subito alle ragazze che non serve essere amiche per vincere. Serve lavorare di squadra, aiutarsi. Quando sento il ritornello “abbiamo vinto perché siamo un bel gruppo” mi viene da ridere: e se avessi giocato male, il gruppo non sarebbe bastato? La verità è che bisogna essere squadra, non andare a cena insieme».
Forse Egonu aveva bisogno di una guida come lei?
«Non lo so, lei ha lavorato con tanti ottimi allenatori. Magari era solo un momento. O era finito un ciclo. Io ho solo cercato di non dare troppa importanza a ciò che non la meritava. A volte girare troppo attorno alle cose alla ricerca delle cause le complica, anziché risolverle. Non sempre serve la psicanalisi».
A proposito, come procedono i suoi studi nell’ambito delle neuroscienze?
«Negli ultimi anni, a cominciare dai mesi a casa per la pandemia, ho avuto il tempo di dedicarmi tanto allo studio. Ho approfondito i temi della metodologia del lavoro, dell’allenamento, di come funziona il cervello in relazione all’apprendimento motorio. Temi che valgono per lo sport, ma non solo, e che tornano utili in contesti come il nostro in cui il tempo è poco e c’è da massimizzare il risultato».
Lei quanto è cambiato rispetto alle prime due Olimpiadi con la Nazionale maschile?
Il dolore per la perdita del fratello
Ho perso mio fratello Raul e la ferita è profonda, ma non posso mostrare alle ragazze il volto triste. La responsabilità mi aiuta a superare il dolore
«Per certi versi sono sempre lo stesso, per altri no perché nel frattempo ho avuto altre esperienze, sono stato anche nel calcio e ho imparato tanto, mi piace più che insegnare. Ma ora voglio godermi fino in fondo questa esperienza».
Il calcio italiano continua a faticare, mentre crescono i successi negli sport olimpici. Come se lo spiega?
«I settori giovanili ci sono e vincono anche nel calcio. Credo che il peccato originale, anche del basket, sia il numero di stranieri. Non so se sia la soluzione al problema, ma forse si potrebbe provare a partire da lì».
E invece ha capito perché la pallavolo femminile non riesce ad avere allenatrici di livello?
«È più complicato da spiegare ed è un problema globale. Forse perché bisogna avere sempre la valigia pronta. O anche per questioni culturali: gli allenatori devono decidere anche quando non sono sicuri e non possono mostrare insicurezza. Certo, ci sono tante straordinarie donne manager o in ruoli apicali della politica, ma in generale l’uomo si assolve più facilmente, la donna fatica di più a perdonarsi per un errore».
La gestione dell’errore è stata anche una delle chiavi del suo lavoro con la Nazionale.
«Alle ragazze ho detto che non avrei più voluto vederle autoaccusarsi di un errore perché vuol dire portarselo nell’azione successiva. Bisogna essere concentrati solo sul qui e ora e imparare a vincere anche quando si gioca male».
A dispetto dell’esperienza, questa è una squadra giovane. I giovani di ora le sembrano diversi rispetto a quelli di 30 anni fa?
«Meno di quanto si pensi. Più che altro è cambiato il mondo in cui vivono e sono cambiati i genitori, nel bene e nel male. Finalmente c’è più parità di genere: le bambine fanno le stesse cose dei maschi e questo ha portato a un maggiore sviluppo motorio delle ragazze che oggi vediamo anche nello sport di alto livello. D’altro canto, spesso i genitori giustificano e difendono troppo i figli, rallentando l’allenamento alla vita vera».
E il suo rapporto con i social è migliorato? È comparso un «profilo ufficiale» a suo nome su Instagram.
«Non sono io. Ogni tanto capita che qualcuno si spacci per me. Non ho nessuna presenza online, anche se dovrei».
Cosa sta leggendo in questi giorni?
«La scorsa settimana ho terminato un vecchio libro che indaga sulle origini del conflitto israelo palestinese. Ora ne ho cominciato un altro che ho ricomprato in italiano: “Il lupo della steppa” di Hermann Hesse».