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 2024  luglio 19 Venerdì calendario

Il lato buono delle banche


Chi ha avuto la fortuna di condividere qualche chiacchierata con Paolo Zannoni, banchiere e uomo d’impresa (oggi presidente di Prada), sa quanto valore dia alle parole. Alle definizioni. In tema di monete, Stati e banche preferisce, e motiva con un libro da non perdere, Moneta e promesse (Rizzoli, nella versione originale Money and Promises), parlare di «debito» e non di «credito». Differenza apparente di poco conto. In fondo se si ha un credito è perché qualcuno è in debito con noi. Facendo però un passo in più, il debito è una promessa. Che, per quanto l’autore sia restio ad ammetterlo, crea un legame, struttura relazioni, non solo rapporti di affari. E, spingendosi ancora più in là, secondo noi, crea comunità.
Paradossi e ironia che sottendono al libro rendono la lettura estremamente divertente. Il che, trattandosi di un saggio composto di racconti di e a partire da l’economia, non è né scontato, né usuale. Certo, si sta parlando di banche. Di istituzioni spesso non amate. E ci vuole coraggio nel difenderne il ruolo essenziale al buon funzionamento non solo degli affari, ma persino delle comunità, degli Stati. 
Il non considerare la centralità delle banche fu l’errore che portò al naufragio della «Commune de Paris» racconta Zannoni. Fu Karl Marx nel suo pamphlet intitolato La guerra civile in Francia a delineare l’infortunio. Errore individuato nel «sacro rispetto col quale ci si arrestò riverentemente davanti alle porte della Banca di Francia». Gli insorti avevano permesso che gli istituti funzionassero regolarmente mentre loro chiudevano scuole e chiese, abolivano il lavoro minorile e «abbattevano la celebre Colonna Vendôme che celebrava la vittoria di Napoleone ad Austerlitz». 
Ma il funzionamento delle banche aveva permesso che, continuando a fare affari, potessero pagare con la moneta creata i soldati e le armi. E quindi la repressione che, durante la «Semaine sanglante», la «Settimana di sangue», portò all’uccisione di circa 20 mila comunardi. 
Un errore che Lenin qualche decennio dopo si guardò bene dal commettere. E qui il racconto si fa anche biografia personale per Zannoni. Lenin, infatti, dopo l’esilio in Siberia per le accuse di attività rivoluzionaria, si trovò a rifugiarsi in Europa. «Occidentale» come ci tiene a specificare il banchiere. Lo troviamo tra Monaco, Londra e Ginevra. In Svizzera trascorre le serate al Café Landolt, all’angolo tra Rue-de Candolle e Rue du Conseil-Général dalle parti dell’università. Una frequentazione così assidua al punto che su un tavolo viene iscritto il nome di Lenin perché era quello al quale amava sedersi. 
A quel tavolo si ritrova anche Zannoni. Ma sono gli anni del Sessantotto. Non è ancora banchiere come sarà anni dopo da partner di Goldman Sachs. Non ha ancora lavorato accanto a Giovanni Agnelli in America o rappresentando gli interessi Fiat in Russia. O come custode della governance da presidente di Autogrill e Prysmian. Zannoni è, all’epoca, un ricercatore post-doc dell’Università di Firenze. 
Assieme ad altri colleghi di un consorzio di università europee studia le organizzazioni sindacali. E si ritrovano a Ginevra periodicamente. Per discutere di scienze sociali. A quel tavolo di Lenin. Un tavolo che oggi non c’è più perché il Café è diventato prima pizzeria poi ristorante asiatico. 
Ed è arrivando al capitolo russo, l’ultimo e più sorprendente del libro, si scopre il perché di un racconto-saggio che a partire da monete debiti e banche riesce a delineare la storia di comunità. Ecco che la storia della moneta di banca che inizia nel XII secolo in Italia è anche la storia di Pisa, della Compagnia di Paranzone e Donato, dei loro libri mastri e di un Leonardo di Pisa detto Fibonacci. O di Venezia e della sua potenza. Grazie anche al Banco di Giro veneziano che l’autore scopre e fotografa oggi con le antiche insegne, sotto le quali però circolano non più monete e debiti ma cicchetti e ombre di vino. 
In coda e nei ringraziamenti si fa scivolare, quasi con pudore non si volesse confessare (cosa che invece fa), che il libro nasce anche da quel colloquio che Zannoni ebbe a Firenze con uno dei padri della politologia italiana, Giovanni Sartori. Lo scienziato lo convoca nel suo ufficio per comunicargli sostanzialmente che la sua carriera universitaria in Italia è finita. Ma per aggiungere poi che lo avrebbe indirizzato nientemeno che a Yale, una delle prestigiose otto Ivy League americane.
Nelle quasi 300 pagine arricchite da una bibliografia, che da sola vale, si intuisce quello che Zannoni rivela alla fine. Ma che è utile si sappia iniziando a leggere il suo «primo libro» come con autoironica civetteria viene indicato nel risvolto di copertina. È il tentativo riuscito di «tracciare le connessioni tra lo sviluppo delle banche e della moneta bancaria, nonché di comprendere il rapporto tra le banche e il destino delle nazioni». Che si tratti della nascita dell’Unione Sovietica come degli Stati Uniti, che grazie all’intuizione sul «debito comune» del primo segretario del Tesoro Alexander Hamilton poterono iniziare dal 1776, anno della Dichiarazione di indipendenza, quell’avventura che li ha portati a essere la prima potenza al mondo. 
E così non troverete le parole «fiducia» e «responsabilità» in Moneta e promesse. I banchieri al massimo valutano al meglio il rischio. Ed è per questo che riescono a sopravvivere a guerre e rivoluzioni. Eppure, sentite come si conclude il capitolo che tratta quelle istituzioni che a Napoli nascono attorno al Cinquecento. Banche buone le chiama Zannoni. «Sostenere una difettosa politica monetaria, dare liquidità al mercato del debito pubblico… accollarsi il costo della riduzione degli interessi e, naturalmente, aiutare i bisognosi: la creatività finanziaria dei Banchi napoletani, istituzioni nate da opere pie religiose, sembra infinita. Banche buone di nome e di fatto».