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 2024  luglio 19 Venerdì calendario

I 21 giorni che hanno azzoppato Joe

Milwaukee L’età e la salute di Joe Biden sono state una issue, un problema, da ben prima del disastroso dibattito televisivo del 27 giugno. Da talmente prima che un titolo della Cnn del settembre 2019 recitava «la corsa democratica è dominata da 70enni». Erano tempi di primarie e almeno allora l’ex numero due della Casa Bianca era in buona compagnia (Bernie Sanders, Elizabeth Warren). Biden perse le prime tre gare, sembrava spacciato. Poi arrivarono a salvarlo i voti afroamericani della South Carolina. E Barack Obama. Il ruolo dell’ex presidente è il secondo filo rosso che collega i prodromi di questa parabola alle ore drammatiche che il leader americano sta vivendo ora. Al tempo fu proprio Obama a convincere gli avversari a farsi da parte. Oggi tutti mettono in mano ancora a lui le forbici che possono tagliare definitivamente l’ultimo legame di Joe con il voto 2024. Da molti mesi prima di essere eletto, Biden si raccontò come un «ponte» verso una futura generazione di leader, suggerendo chiaramente di immaginare per sé un solo mandato e scegliendo come vice la più «presidenziale» delle figure disponibili: Kamala Harris. Ma è noto che ci fu probabilmente un momento preciso in cui cominciò a cambiare idea: il 6 gennaio 2021, giorno dell’assalto al Congresso. Da allora è stata la «difesa della democrazia» a fargli da bussola. Biden si convinse che, se fosse stato ancora Trump il candidato repubblicano, chiunque avesse avuto le chance migliori di batterlo avrebbe avuto il dovere morale di farlo. A partire da lui. Sono le parole che ripete ancora in queste ore. 
Nel corso della presidenza Biden ci sono stati vari momenti in cui la sua salute è tornata in primo piano: dal Covid, contratto due anni fa e di nuovo mercoledì, alle cadute in bicicletta fino a una prima conferenza stampa confusa in Vietnam lo scorso settembre. Ma nonostante il nodo di quanto il presidente fosse fit(adatto) per altri 4 anni non abbia mai abbandonato né la stampa né gli attacchi degli avversari, nessuno di minimamente rilevante nel partito democratico si era mai azzardato a metterne in discussione la leadership: Biden non ha avuto praticamente rivali nelle primarie di questa primavera, per quanto sia in parte normale per un incumbent. Poi è arrivato il dibattito del 27 giugno scorso, anticipato solo da una rinnovata ondata di bordate della propaganda trumpiana intorno al G7 in Puglia, con video più o meno «montati» che lo ritraevano sempre meno in forma. Ma negli studi della Cnn non è stata tanto la micidiale frase di Trump («Non ho capito cosa abbia detto e probabilmente nemmeno lui») ad aver scoperchiato il vaso di Pandora: sono stati la confusione nelle risposte, il tono smarrito a mandare in allarme il mondo intero e – prima dei politici – i più importanti commentatori americani di area democratica. A partire da Tom Friedman sul New York Times: «Joe è un brav’uomo e un bravo presidente, ma ora deve ritirarsi». 
Passato e presente 
Il suo ex «capo» aveva unito i dem dietro di lui nel 2020, ora potrebbe convincerlo a lasciare 
Il presidente prova a mostrarsi combattivo al vertice della Nato, dove però confonde Zelensky con Putin e Harris con Trump. Dice ripetutamente di non voler mollare la corsa. La moglie Jill, che molti vorrebbero desse una mano, è con lui. Ma in quel momento era già tornata l’ombra di Obama ad allungarsi sulle sue scelte. L’uomo che lo scelse come vice, che gli stette vicino durante la morte dell’amatissimo figlio Beau, che gli appese al collo la Presidential Medal of Freedom, che gli prestò perfino i soldi per comprarsi la casa (ma anche quello che nel 2016 gli chiese di farsi da parte e di lasciare la corsa presidenziale a Hillary Clinton) è tornato da subito in tutte le cronache come l’unico nome che sarebbe stato in grado di convincerlo al passo indietro. 
I due si sono sentiti. Ma da allora sono passate quasi tre settimane in cui – come in un devastante stillicidio – prima si è «scatenata» la stampa amica. Poi i primi mugugni dei compagni di partito, a cominciare dal’influente congressman Adam Schiff. Poi le star delle raccolte fondi come George Clooney o gli scrittori come Stephen King. E infine lo stato maggiore del partito democratico (Nancy Pelosi, i leader del Congresso Chuck Shumer e Hakeem Jeffries), negli ultimi tre giorni in processione o aggrappati al telefono con i sondaggi in mano per pregare il presidente di guardare non solo le tabelle, ma anche la realtà. 
In attesa – forse – che Obama alzi di nuovo la cornetta. E non per parlare con i suoi compagni di partito, come il Washington Post sostiene abbia fatto in questi giorni. Ma per dirgli che ogni strada si è chiusa. Ma forse non sarà nemmeno necessario il suo intervento.