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 2024  luglio 18 Giovedì calendario

biografia di Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio, ha mai sbagliato un libro?
«Il silenzio dell’onda, nella prima stesura. Ma accettai le critiche e lo riscrissi in un mese, l’agosto del 2011».
L’anno dopo quel libro entrò nella cinquina del Premio Strega. Le spiacque di più non vincere allora o nel 2020, con La misura del tempo?
«Sappiamo tutti come funziona lo Strega: è il risultato di un concorso di fattori, fra i quali una efficace attività di lobbismo. L’avrei vinto volentieri, ma altri l’hanno fatta meglio di me. Direi basta».
Ma se avesse la certezza di vincere ri-parteciperebbe?
«Certo. Perché tutti si dimenticano questa cosa, dopo, e il premio diventa una certificazione di qualità letteraria».
Gianrico Carofiglio risponde a tutto (tranne che alle domande su Michele Emiliano) davanti a un piatto di pollo ai peperoni e a un bicchiere di Taurasi, il Barolo del Sud. Non si nega nemmeno quando gli chiediamo se rifarebbe causa a Vincenzo Ostuni, l’editor di Ponte alle Grazie che lo aveva definito su Facebook «uno scribacchino mestierante».
Non pensa di aver limitato il suo diritto di critica?
«Abbiamo fatto una transazione, mi ha scritto una lettera di scuse e ha dato dei soldi in beneficenza».
Cinquantamila euro?
«Molto meno. Comunque, dal punto di vista giuridico non c’è nessuna compressione del diritto di critica: c’è una netta differenza tra la critica durissima al libro, legittima, e le offese personali, non ammissibili. Detto questo, tornando indietro non lo rifarei, non valeva la pena».
I suoi maestri?
«Si dicono un sacco di bugie, per fare bella figura. Dostoevskij? Sì. Ma è davvero stato lui a formare la mia sensibilità? Direi Simenon. Calvino. E Carver, per il lavoro ossessivo sulla pulizia della scrittura, anche se le sue cose non mi hanno emozionato».
Il libro riletto più volte?
«Lo studente straniero di Philippe Labro, un romanzo di formazione fenomenale».
Quello che avrebbe voluto scrivere lei?
«Il piccolo principe. E, più di recente, Le nostre anime di notte di Kent Haruf».
L’autofiction?
«Mi pongo un problema etico: hai diritto, per raccontare una storia, di offendere in modo irreparabile e gravissimo delle persone coinvolte?».
Lei come scrive?
«Senza regole: scrivo il capitolo 23 poi il 12 e poi li metto insieme. So subito dove comincia e dove finisce, i personaggi principali. Dopo esco, chiacchiero, la sera riverso gli appunti. E quando non posso più evitarlo, accelero».
È difficile per lei scrivere?
«Per darmi un tono potrei dire che è penoso perché ha a che fare con la ricerca della verità. In realtà è faticoso, perché sono molto pigro».
Ama uscire a gennaio.
«Ora lo fanno tanti. È cominciato nel 2010: dopo l’ubriacatura di Natale facevano uscire gli esperimenti, e così Le perfezioni provvisorie, che vendette più di 400 mila copie. Ma non è una regola fissa. In autunno uscirà per Einaudi un piccolo pamphlet: Elogio dell’ignoranza dell’errore».
Dei suoi personaggi, vuole più bene a Penelope (Spada), a Pietro (Fenoglio) o a Guido (Guerrieri)?
«A Penelope. Ho fatto un lungo lavoro preparatorio, parlando con tante donne, per buttare nel mio serbatoio punti di vista che potessero darmene uno che fosse mio, ma fosse al femminile. Ho imparato a guardare dettagli mai visti prima: le scarpe, l’acconciatura, gli orecchini, la cura o la mancanza di cura».
Penelope è piena di rabbia.
«Perché vive in un mondo iniquamente maschile. Ho pensato: se fossi una donna sarei veramente incazzato. Invisibili di Criado Perez lo racconta bene: il mondo è ancora disegnato sul maschile».
Lo scrittore più grande?
«Shakespeare, forse».
Tra Pavese e Fenoglio?
«Fenoglio, anche se il più bell’incipit del Novecento italiano è di Pavese ne La bella estate: “A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte...”».
L’incipit sopravvalutato?
«Anna Karenina».
Ha più dignità un saggio, un racconto o un romanzo?
«Non c’è un genere superiore, ma scrivere romanzi è molto più difficile. Un saggio, se conosci l’argomento, lo scrivi in un mese. Un romanzo lo scrivi quando c’è una cosa che non capisci e nemmeno tu sai esattamente qual è».
Ha pubblicato con Sellerio, Rizzoli, poi Einaudi: si è detto «ora sono uno scrittore», quando ha cominciato a scrivere per loro?
«Einaudi è la casa editrice con il più grande catalogo del mondo. Per il resto, ho applicato la regola di Fellini: puoi dire di essere un regista dopo aver fatto tre film. Comunque tuttora mi suona strano...».
Beh, ha venduto sette milioni di copie... Un editore però le scrisse per bocciare il suo libro di esordio, che nel frattempo era già arrivato alla sesta ristampa con Sellerio. Chi era?
«Fazi, che mi piace molto. Ma non è vero, come disse, che ho incorniciato il rifiuto».
E invece cosa fece?
«Replicai a chi aveva firmato la lettera: “Vi ringrazio per la cortese (ancorché non propriamente tempestiva) risposta. Prendo atto del negativo parere, non condiviso peraltro da un certo numero di lettori che hanno acquistato il libro nelle sei edizioni finora pubblicate».
La lusinga avere un ufficio nella libreria delle Vecchie Segherie di Bisceglie, come Biagi alla Rizzoli di Milano?
«Sono stati molto carini. Ricordo invece di essere entrato una volta nell’ufficio di Enzo Biagi, con l’affaccio sulla Galleria. Mi emozionò quello scarto surreale improvviso: apri una porticina tra i libri, e si capovolge tutto».
Ora la Puglia è la regione più di moda in Italia.
«Quando è uscito Testimone inconsapevole, nel 2002 e non nel 1912, esisteva un solo romanzo ambientato a Bari, scritto da Beppe Lopez, un giornalista pugliese. Adesso contateci. Le cose prendono accelerazioni improvvise».
Lagioia le piace?
«È munito di grandi mezzi tecnici, ha fatto bene al Salone del libro. Ma ho un’idea di scrittura molto diversa».
E cosa pensa della metamorfosi politica della Puglia?
«L’unica lezione che traggo è che non bisognerebbe mai assegnare etichette. Per fortuna le cose cambiano in maniera spettacolare».
Scriverebbe un altro libro con sua figlia Giorgia?
«No. È stata una bella cosa e grazie a quel libro lei ha trovato lavoro: ora è junior editor alla saggistica di Mondadori».
Quanto è stata importante, per accendere la miccia della scrittura, l’invidia verso suo fratello che già scriveva?
«L’invidia mi ha afflitto a lungo per varie ragioni: è stato penoso negarlo agli altri e a me stesso. Ma l’invidia rispetto a mio fratello Francesco era sana. Mi diceva: “Vedi com’è stato bravo?”. Oggi è molto meno nociva, ma resta una belva selvaggia. Anche se l’ammetti, se ci hai lavorato, non la elimini. E forse non è neanche giusto farlo».
Quale scrittore invidia?
«Chi non si merita quello che ha. Però forse è l’invidia che mi fa parlare».
Cosa pensa di Eco?
«Il nome della Rosa è un grande romanzo, gli altri...».
Dante?
«All’esame di terza media portai il XXVI Canto dell’Inferno. Fu brevissimo. Il professore chiese: qual è il punto fondamentale? E io: Fatti non foste a viver come bruti. Finito».
Manzoni?
«È stato grandemente danneggiato dal fatto di essere letto a quindici anni».
Ci sarà mai un ultimo libro? I nativi digitali porteranno alla sua estinzione?
«Turner, grande paesaggista inglese, disse: “Sono contento di essere abbastanza vecchio da non poter assistere alla fine della pittura”».
La pittura un po’ è finita...
«Sono stato di recente a Firenze a vedere la mostra di Kiefer: pare Michelangelo».
 
 
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