il Giornale, 18 luglio 2024
Paul Auster: "Giocai con le armi che uccisero mio nonno". Il racconto dello scrittore di New York
In un racconto di J.D. Vance, l’autore del memoir Elegia americana che da qualche giorno è candidato come vice di Donald Trump alla possibile presidenza degli Stati Uniti, un uomo del Kentucky parla al suo fucile: «Sei il mio unico amico», gli dice. «Nessuno mi capisce quanto te. E per questo gliela faremo capire assieme», sottintendendo a un imminente, quanto tristemente comune, massacro.
Statisticamente, non c’è americano che non avrà a che fare almeno in un’occasione con le armi nel corso della propria vita, da una parte o dall’altra del grilletto. Non è una questione di destino o di opportunità, di eroismo o di sfortuna, ma solo di casualità. Per alcuni americani le armi sono un culto, per altri un diritto, per altri ancora una maledizione. E per tutti sono lì, a poca distanza, nei cinturoni dei poliziotti e nei centri commerciali, sotto i cruscotti delle auto e negli stipi delle cucine, pronte a incontrare chi le utilizzerà e chi se le troverà puntate contro. Armati o disarmati, non si è mai abbastanza distanti dalla canna di una pistola.
Quando Paul Auster ha incontrato la sua prima arma aveva nove o dieci anni. Era un fucile calibro 22 e serviva per sparare a un bersaglio di cartone durante le attività di un campo estivo. Erano gli anni Cinquanta. Il mito dei padri, eroi trionfali della Seconda Guerra Mondiale, e dei nonni, che avevano servito nella Prima, si mescolava alle storie del selvaggio West e non c’era ragazzino che non tenesse una pistola di plastica penzolante dal fianco, che non sparasse a immaginari predoni e carovane inesistenti, che non stesse dalla parte dei banditi o degli uomini di legge.
Auster stava sempre coi buoni, ma sparava come tutti gi altri. Non c’era niente di male: l’educazione alle armi faceva, e fa ancora, parte dell’infanzia americana, come la carne e lo zucchero, il mito della frontiera e il baseball.
La seconda arma di Auster è stata una doppietta. Aveva quattordici anni e si divertiva a tirare al piattello in compagnia di un amico durante una vacanza in una tenuta di campagna. «Per tutto il pomeriggio, non ne ho mancato uno», scrive nel saggio Bloodbath Nation (in Italia uscirà a novembre per Einaudi). Eppure, benché armare, mirare e sparare gli venisse facile come colpire una palla di pelle bianca con una mazza di legno e tutti i suoi colpi andassero a segno, non ha mai dato continuità a questa sua predisposizione naturale. Le armi, diceva, gli erano indifferenti senza nessun motivo immediatamente apparente. Era come se sentisse che c’era qualcosa che non andava, tra lui e i grilletti. Era, come accade, una questione di famiglia.
Ci sono luoghi, negli Stati Uniti, dove tenere un’arma in casa, a portata di mano, non è né raro né sconveniente. «Non è più nemmeno uno status symbol, ma la norma» scrive Stephen King in uno dei saggi che compongono Guns (un pamphlet contro le armi pubblicato in Italia da Marotta e Cafiero per la traduzione di Ercole Leo). È come possedere un abat-jour o un cuscino del divano. Ce ne sono altri in cui parte della routine nel sedersi al bancone di un diner per prendere un caffè e una fetta di torta prevede sganciare la pistola dalla fondina e appoggiarla in bella vista per dichiararla agli altri avventori. Così, per chi si trovasse a passare da quelle parti, la scena si presenterebbe con una sfilza di armi da fuoco bene allineate sul banco, alternate a tazze e bicchieri di succo, altre pistole, qualche piatto, magari un berretto da lavoro. Non sono angoli, o sacche oscure e remote di un Paese per il resto estraneo a questo genere di situazioni, ma interi Stati che reclamano il diritto di essere armati come quello alla libertà e alla ricerca della felicità. Perché «La felicità», per citare la National Rifle Association, che a sua volta citava un fumettista e veniva citata da un gruppo di pacifisti, «È una pistola calda».
Il nonno di Auster era stato ucciso da un colpo d’arma da fuoco, molto prima che lui nascesse. Vivevano a Kenosha, Wisconsin, in una di quelle grandi sacche buie di libertà relativa. Suo padre aveva sei anni e mezzo, suo zio ne aveva nove. Crescendo, è capitato che qualcuno chiedesse come fosse davvero morto il nonno, ma le risposte erano sempre evasive: un incidente di caccia, sul fronte durante la Grande Guerra, cadendo da un tetto. In realtà – come Auster racconta di aver scoperto da una cugina che aveva incontrato per caso un tale che ancora viveva a Kenosha – era stata la nonna a sparargli, di fronte a uno dei suoi figli. Lo aveva fatto per gelosia, quando, dopo la separazione lui era andato a vivere con un’altra donna. Durante una visita per portare qualche regalo ai suoi ragazzi, gli aveva chiesto di cambiare una lampadina in cucina, era salita al piano superiore, recuperato il suo revolver, e lo aveva freddato con due colpi: uno all’anca e uno a collo. Suo figlio più grande era lì: reggeva una torcia per il padre, mentre chiacchieravano della scuola.
Processata e assolta per “momentanea infermità mentale” aveva poi lasciato il Wisconsin per il New Jersey, intimando ai bambini di non parlare mai di quella vicenda. E così è stato, molto a lungo.
La nonna di Auster esercitava un suo diritto, garantitole dallo Stato nel quale viveva. Teneva la pistola sotto il materasso di suo figlio minore, il padre di Paul, che per il resto della sua vita avrebbe temuto le armi e avrebbe passato un’istintiva indifferenza venata di sospetto al figlio, che, comunque, ne avrebbe impugnate e avrebbe imparato a usarle.
Più dell’ottanta percento delle morti mondiali per armi da fuoco avviene ogni anno negli Stati Uniti. Scrive Auster: «La distanza rispetto a ciò che accade nel resto del pianeta è così ampia, così impressionante, così sproporzionata, che non si può fare a meno di domandarsi perché». Le armi americane uccidono presidenti, candidati, senatori, poliziotti, liberi cittadini e malcapitati, ma mai per caso. Per l’esercizio di un diritto che, come conclude Auster, «Alcuni di noi non hanno mai reclamato, ma si ritrovano a esercitare». —