Avvenire, 18 luglio 2024
Gide e Valéry, un’amicizia piena di silenzi
L’editore Nino Aragno pubblica ora in due maestosi volumi la Corrispondenza (1890-1942) di André Gide e Paul Valéry a cura di Vito Sorbello (pagine 1.220, euro 60,00). Singolare amicizia quella tra Valéry e Gide. Due scrittori di grande autorità e fama che hanno dominato in Francia nella prima metà del Novecento. Due esemplari di autocoscienza che nel corso della vita hanno riempito diari e quaderni di appunti. Due campioni dell’autoanalisi che però, nel loro assiduo epistolario, continuano a dichiararsi amici senza discutere quasi mai di letteratura, se non in alcune lettere del 1899, quando stavano arrivando ai trent’anni. Probabilmente era proprio perché capirono presto di non somigliarsi affatto come scrittori che preferirono essere reticenti. Non avrebbero facilmente tollerato che l’amico interferisse nel loro personale modo di produrre narrativa e poesia e di vivere in una società letteraria affollata e strutturata come quella francese. Essendo coetanei, si sono ripetuti per tutta la vita di volersi bene e di avere bisogno l’uno dell’altro, eppure si vedono raramente e discutono ancora meno.
Paul Valéry, il poeta che per vent’anni non scrive poesia non smettendo mai di pensarci, e che diventerà un mito e un mistero affascinante proprio per questo, era gelosissimo del suo stile di vita e del suo metodo di lavoro. Il narratore André Gide, invece, scrive e pubblica, amministrando contemporaneamente con una certa abilità la propria professione di scrittore. Sembra che abbiano avuto tutti e due un problema: quello di Marcel Proust e della sua eccezionale impresa letteraria, che nelle loro lettere non compare quasi mai, sebbene debba aver occupato ripetutamente e a lungo la loro attenzione. Non osarono fare obiezioni al carattere e alla genialità della Recherche proustiana, uscita nei suoi diversi volumi fra il 1913 e il 1922. Più che sintomatico è il fatto che Valéry, poeta essenzialissimo, perfezionista, severo e avaro di sé, disse di non aver letto l’opera di Proust perché non amava leggere romanzi, ma che era senza dubbio un’opera di valore perché così gli aveva assicurato il suo amico Gide, del cui giudizio si fidava assolutamente.
Gide è il tipo di scrittore che vive della e nella sua professione e già nel 1908, mentre Valéry non riesce più a produrre poesia, fonda con Jacques Rivière la “Nouvelle Revue Francaise”, che resterà fino a tutti gli anni trenta la rivista letteraria europea più prestigiosa: insidiata a distanza solo dal “Criterion” di T. S. Eliot, rivale insuperato, anche come teorico e critico, sia di Valéry, l’erede di Mallarmé, maestro della “poesia pu-ra”, sia del più giovane André Breton, erede di Apollinaire e inventore del Surrealismo. Il ventennio fra le guerre del 1914-18 e del 1939-45 è stato quello in cui la cultura letteraria francese e la città di Parigi hanno raggiunto il culmine della loro centralità in Europa e in tutto l’Occidente, comprese le due Americhe. Un critico tedesco come Walter Benjamin intervistò Gide e scrisse saggi su Proust, Valéry e tutta l’intellettualità francese divisa fra radicalismo, estetismo e nichilismo. Di tutto questo Gide e Valéry non parlano nel loro epistolario. Evitano le discussioni proprio perché la loro non è un’amicizia letteraria e neppure intellettuale: è fondata piuttosto sulla tranquillità affettiva del sentirsi diversissimi come scrittori, i cui proble-mi e le cui ambizioni non hanno niente in comune. Gide è classicamente occupato dai suoi stati d’animo e dalla sua sensibilità sociale di moralista e immoralista. Benjamin disse che nel suo volto si alternavano malizia e bontà: era l’ultimo dei moralisti francesi, somigliava a due secoli di distanza a La Rochefoucauld e La Bruyère, che studiando i costumi sociali sanno di essere dei “casi particolari”. Negli anni trenta Gide arrivò sia a dichiararsi comunista che a smascherare, dopo un breve viaggio in Russia, il falso comunismo di Stalin, per poi precorrere gli esistenzialisti Sartre e Camus, che presero il suo posto negli anni quaranta e cinquanta.
A Valéry non interessò mai la letteratura in quanto forma e strumento di comunicazione e di presenza pubblica. I suoi particolari rapporti con la poesia nascevano da una divorante passione analitica per il funzionamento dell’attenzione, della mente, del pensiero e dei loro rapporti con la sensibilità. In un suo saggio degli anni trenta disse che l’ottundimento delle percezioni sensoriali nelle condizioni della vita moderna danneggiano gravemente l’intelligenza e le capacità creative: «La posta e il telefono non disturbavano Platone. Gli orari ferroviari non mettevano in ansia Virgilio». Quando la sensibilità si indebolisce, lo stesso indebolimento colpisce anche il pensare e il capire le cose come sono.
Gide vive la letteratura come impresa direttamente o indirettamente autobiografica. Valéry è un illuminista dei processi mentali, mira a razionalizzare la creazione poetica riducendola ai minimi termini quantitativi e alla sua massima intensità. Anche se nel suo pensiero non trovano posto l’etica e la politica, il suo rifiuto di ogni politica letteraria lo porta a una diversa morale della poesia, alla depurazione del rapporto fra il linguaggio e l’esperienza.
Invece di scambiarsi lettere raziocinanti e piene di idee, Gide e Valéry si parlano come due amici qualunque. Si sono chiamati per tutta la vita “vecchio mio”. Era fatale che la loro comunicazione epistolare nascesse giovane e reticente senza poter mai né interrompersi né invecchiare.