il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2024
Suonare le vite degli altri. Ossessione tribute band
Sì, può arrivare il giorno del tilt: maledici la faccia con cui sei venuto al mondo e la carta d’identità. Vivi la vita di un altro ma non sei “lui”, l’eroe del rock che stai emulando, del quale riproduci voce e suoni. Però almeno ci campi. Caro mio, sei in una tribute band, il tuo compito è imparare alla perfezione il repertorio del gruppo originale, riproducendo dal vivo la scaletta di stagioni auree scivolate via nel tempo. E sperando nella clemenza di un pubblico pronto a storcere il naso per l’insoddisfacente performance o anche solo la distanza somatica da chi stai imitando: d’accordo, sei un musicista ma pure un attore che grazie a documenti d’epoca studia le mosse dell’alter-ego celebre, indossando i suoi stessi costumi, riproponendone nel modo più fedele il timbro vocale o utilizzando i medesimi strumenti e gli effetti di tournée mitologiche.
È la missione psicologicamente tosta, alienante e stoica, di una tribute band: trasportare gli spettatori dentro una capsula del tempo, illudendoli che sul palco ci siano i Genesis di Selling England by the Pound, i Pink Floyd di Dark Side of the Moon, i Queen di A Day at the Races. Una tribute band rinuncia alla creatività per ripercorrere carriere e opere altrui: come un’orchestra che suoni Mozart o Beethoven, come una compagnia teatrale alle prese con Shakespeare o Eschilo. E attenzione: diversamente da queste, dove registi, direttori musicali, scenografi e interpreti hanno libertà di reintepretare, per la tribute non c’è spazio di manovra: devi essere maniacalmente sovrapponibile agli idoli, indistinguibile da loro. Una performance copia e incolla, molto più insidiosa dell’ingaggio di qualunque cover band da pub: dove si pesca allegramente tra classici sparsi, accettando suggerimenti dalla gente, citando a piacere Vasco o gli Stones, Dylan, Marley, Renato Zero, tutto in una sera. Al massimo ti tirano una birra.
Ma se la tua tribute funziona, girerai il mondo in un business da milioni e i tuoi eroi di riferimento resteranno a bocca aperta, vedendosi come dentro uno specchio inclinato nel loro passato. Quando Peter Gabriel, Phil Collins, Tony Banks o Steve Hackett andarono a curiosare negli show dei canadesi The Musical Box non potevano crederci: “Ehi, quelli siamo noi! Nel 1974!”. L’operazione di ricostruzione storica era ed è filologicamente perfetta: così erano i Genesis vintage, se non eravate nati allora ve li riportiamo qui oggi noi. Il cantante non è Gabriel, ma Denis Gagné da Montreal. Truccato e in costume è un calco impressionante di Peter, e così i suoi sodali nei The Musical Box. Non a caso hanno conquistato la Royal Albert Hall o l’Olympia: il fan talebano dei primi Genesis approva.
Le tribute monografiche sono decine di migliaia, alcune formidabili: gli inglesi Brit Floyd godono della benedizione di Waters e Gilmour per la maestria tecnica: in Italia sono molto apprezzati i Big One e i Pink Floyd Legend: questi ultimi, che suoneranno il 24 luglio a Capannelle per Rock in Roma, all’inizio dell’anno si sono prodotti in una serie di serate per omaggiare un album a concerto: si deve proprio ai Legend la prima mondiale live di The Final Cut, ospite Harry Waters, il figlio di Roger. O magari avete nostalgia dei Queen al tempo del Live Aid? I migliori cloni del pianeta sono i Bohemian Queen di Los Angeles, per alcuni persino più godibili dei veri Queen che insistono a imbarcarsi in tour ramazzasoldi con frontman “esterni” (vedi Adam Lambert) schiacciati dal paragone con Freddie. I Beatles sbarazzini dei primi Sixties? Tra milioni di ammirevoli tarocchi, menzione d’onore per i Britain’s Finest, che a dispetto del nome sono califoniani. Roba da Las Vegas, con zazzere, cravattine e look sartoriale. E gli Zep-LA? Americani, ma il chitarrista ha un talento che diresti impiantato con le staminali di Jimmy Page. A volte la tribute è un trampolino per entrare nella band “doc”: negli anni 90 il vocalist Tim Owens fu reclutato dai Judas Priest. Mentre Iron Maidens è la versione al femminile di quei manigoldi capitanati da Bruce Dickinson. Gli Ultimate Coldplay? Somiglianza fisica per tutti e quattro, fatto raro. “Chris Martin” ricorda la star, però dopo un pestaggio.
È l’universo parallelo del rock & pop ricostruito in laboratorio, ma con risorse umane: comunque meglio dell’insidiosa prospettiva dei tour delle intelligenze artificiali o degli avatar post-mortem. E se una tribute dovesse rivelarsi un recinto da claustrofobia, c’è la chance per gruppi di “eredi diretti”. Nella Dire Straits Legacy non trovi Mark Knopfler ma i membri originari Alan Clark e Phil Palmer, con visite sporadiche di Pick Withers o John Illsey. Chi invece si diletti con i Deep Purple non farà male a riservare un seggiolino guest per il batterista della leggenda, Ian Paice.
E se nessuno degli emuli ti intriga, rifugiati in una self-tribute band: Nick Mason è in giro da anni con i suoi A Saucerful of Secret per risuonare i Pink Floyd dell’era Barrett. Un giorno ci confidò: “Lo faccio per tenermi in forma. Difficile che Gilmour e Waters facciano pace, nel caso mi tengo pronto”.