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 2024  luglio 18 Giovedì calendario

Il caso Yara, Bossetti e i ragionevoli dubbi la docuserie che non accetta le sentenze


MILANO – Esistono due modi per guardare “Il caso Yara: oltre il ragionevole dubbio”, l’ultimo prodotto nel filone delle docuserie per piattaforme tv o canali tematici – Netflix, in questo caso – che si agganciano ai più eclatanti casi di cronaca per costruirci intorno una tesi. E questa è innocentista: lo si sa dal battage, lo si immagina fin da quando è comparso nel trailer Massimo Giuseppe Bossetti, lo si appura puntata dopo puntata.
Sono cinque da oltre 50 minuti l’una, le si beve insieme in un’intera serata e si va a dormire con l’incubo dell’ennesimo caso di malagiustizia per incastrare il classico mostro da costruire a tavolino e sbattere in prima pagina. Non senza una spruzzatina di veleno su possibili colpevoli alternativi. Il cliché è servito.
Torniamo ai due modi. Il primo è limitarsi ad apprezzare la fattura tecnica della produzione di Quarantadue (gli stessi del fortunatissimo San-Pa), il ritmo della ricostruzione, le suggestioni restituite dall’abbondante uso di flashback e fast forward, di immagini dal drone e grafiche, di filmati di repertorio intersecati a interviste originali. Con limitate concessioni alla fiction (immagini «posate», primi piani rallentati) e barra salda sul «docu».
E la documentazione, l’abbondanza di materiali audio e video pescati nel mare magnum degli atti è la vera ricchezza della serie. Permette, tra l’altro, di ascoltare l’angoscia progressiva nelle voci intercettate di Fulvio Gambirasio e Maura Panarese, i genitori della 13enne di Brembate di Sopra, e il metodo d’interrogatorio della pm Letizia Ruggeri: sono i grandi assenti da questo prodotto, recuperati in parte attraverso l’artificio narrativo.
Già, l’artificio. E siamo al secondo modo per accostarsi al «caso Yara». Quello del tifo, dell’opinione, della bandierina innocentista o colpevolista. Magari accostandola all’altra docufiction che la precedette sette anni fa, «Ignoto Uno», con Letizia Ruggeri quella volta protagonista. Voce dell’accusa contro carte della difesa, nell’eterno quarto grado mediatico che accompagna simili tragedie fino a travolgerle col chiacchiericcio.
Non è un caso che buona parte del materiale di repertorio provenga dalla valanga di talk show e programmi di infotainment che si sono cibati del caso Yara, e non è un caso lo spazio concesso a due dei tribuni tv (Luca Telese e Marco Oliva) più schierati nel campo innocentista, perfino più assertivi degli avvocati difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini.
È il sottotesto delle cinque puntate, e va colto: l’esondazione di opinionisti e microfoni che seppellisce nella percezione comune il lavoro degli investigatori, un memento del cattivo giornalismo divorato dal trash. Massimo Giuseppe Bossetti compare alla fine della seconda puntata e attraversa le restanti tre. Dare spazio alle sue parole, ai suoi tormenti di ergastolano, alle sue lacrime e ai suoi ricordi, perfino ai Vhs riemersi dal suo privato sbriciolato è un esercizio giornalisticamente corretto. Anzi, molto valido. È il protagonista, in nero, della storia ed è giusto ascoltarlo e dare conto dei suoi anni in carcere. Così come risentire la moglie Marita Comi, i genetisti della difesa, perfino l’investigatore privato del collegio.
Riascoltare i dubbi, le omissioni, le giravolte e i colpi di scena (e pure quelli bassi abbondano) di un’indagine irripetibile nella storia giudiziaria italiana. Tutto questo a patto di ricordare a ogni minuto che la condanna di Bossetti è passata per tre gradi di giudizio. E che la prova chiave – il dna del muratore di Mapello sugli slip della 13enne – ha attraversato indenne ogni tipo di forca caudina, resistendo alle contestazioni insieme ai risultati delle celle telefoniche, ai residui di calce e alle sferette metalliche da cantiere di cui il cadavere era contaminato, alle ricerche sul pc dell’imputato.
Gli elementi che nel 2016 convinsero la presidente Antonella Bertoja – oggi alle prese con un altro processo per femminicidio, quello a carico di Alessandro Impagnatiello – e poi i giudici d’Appello e Cassazione a condannare Bossetti.
Altrimenti si rischia di sfociare nell’esercizio cui si sottrae con professionale eleganza l’anatomopatologa Cristina Cattaneo: «Non rifarò il processo in questo documentario». O si scade a rilanciare le teorie alternative tanto care alla difesa, soffiando il venticello del sospetto sulla maestra di ginnastica di Yara, Silvia Brena, o sul custode del centro sportivo di Brembate, Valter Brembilla, che “non sono mai stati indagati” come ricorda un’allusiva sovrimpressione.
Così si sconfina in un’operazione gemella di quella allestita dai difensori di Rosa Bazzi e Olindo Romano, con la sponda mediatica delle Iene, a proposito della strage di Erba. Cibo per complottismo social, tentativo di rovesciamento dei verdetti che si è schiantato al processo di revisione. E non poteva essere altrimenti.

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