Corriere della Sera, 16 luglio 2024
Intervista a Folco Terzani
Folco Terzani è un uomo che ha beffato più volte il suo destino, sin dalla nascita, nel 1969 («Nei piani di mio padre avrei dovuto nascere a Cuba e chiamarmi Mao»). E oggi, in un appartamento luminoso di Fiesole, alle porte di Firenze, mi siede dinanzi con maglietta e pantaloni beige, senza scarpe. Non le indossa da anni («salvo qualche volta quando vado in centro, mi guardano troppo male»), così come non indossa le maestose vesti bianche che hanno fatto di suo padre Tiziano il simbolo del cronista cosmopolita, il giornalista del mondo. «Però papà vive in me attraverso fili più sottili – ammette —, meno scontati. E forse questo è il ringraziamento migliore che io possa fargli: cercare di non essere mai banale».
Vent’anni fa Tiziano Terzani prima raccontava e poi viveva «un ultimo giro di giostra». Vogliamo dirlo subito che non deve essere stato facile essere suo figlio?
«Evidentemente. Le dico solo una cosa: io ho studiato Filosofia e Letteratura inglese a Cambridge, ero uno degli allievi più lodati. Eppure per me l’università più famosa del mondo era modesta rispetto al peso culturale di mio padre. Lui era più interessante, più carismatico, più tutto».
Seconda beffa inflitta al destino da parte sua: non seguire le orme di Tiziano e non fare il giornalista.
«Questo era uno dei motivi di scontro con lui: Tiziano è stato cronista fino alla fine, tanto è vero che poco prima di morire ha voluto raccontare il suo ultimo viaggio (nel libro Un altro giro di giostra, ndr.). Io no, io ho sempre avuto bisogno di vivere le cose e di lasciarmi vivere da queste».
Che consigli le dava?
«Madre Teresa era l’unica che, ai suoi occhi, non fosse una povera di spirito: questo bastò per spingermi ad andare a trovarla. Lei fu netta: non stare qua a farmi domande, mi disse, vai a soccorrere i morenti. Cominciai a lavorare come volontario tra i mendicanti e i malati, dovevo rimanere un mese ma restai un anno e lì mi sposai pure, anche se durò poche settimane. Papà mi rimproverava: “Devi solo assaggiare la minestra, non viverci dentro”. Non ero come lui, ma il suo amore per il vero e per il rigore morale mi guidavano sin da allora».
Tiziano era famoso per la sua avversione a un certo tipo di capitalismo.
«Infatti, una volta finita l’università mi arrivarono proposte economicamente molto allettanti da diverse multinazionali. Ma le rifiutai tutte. Poi mi chiamarono all’Onu a New York. Era quasi fatta ma nelle orecchie sentivo forte la sua aspra critica alle istituzioni paludate. Andai da lui: “Babbo, che devo fare?”. Mi rispose: “Tu ci vuoi andare? No? Bene, ti pago un anno intero per fare quello che ti piace”».
Una sottile forma di controllo o la magnanimità di un padre comprensivo?
«Mio padre era la guida della famiglia e quando oggi qualcuno mi chiede se, nelle sue lunghe assenze per lavoro, sentivo la sua mancanza, io rispondo che era talmente “presente” che forse nei periodi in cui non c’era gli volevamo ancora più bene».
Curiosità: di che cosa si parlava a tavola con Terzani?
«Ah, di certo non di cibo. Parlare di cose da mangiare era proibito, si discuteva solo di massimi sistemi. La guerra, la pace, la geopolitica. Di fronte a tutto questo, il mondo mi sembrava piccolo. Forse è stato a causa di ciò che ho cominciato a viaggiare. Un anno tra i lama tibetani, poi l’India, tutta l’Asia».
Lei, sua sorella Saskia e sua madre Angela lo avete seguito in diverse parti del mondo, da Singapore a Tokyo a Pechino.
«E lei adesso mi chiederà chi frequentava casa nostra. Di certo non i politici, che lui disprezzava apertamente. Piuttosto venivano i Sadhu dell’Himalaya, mistici che hanno abbandonato ogni genere di vita materiale e vivono di pratiche ascetiche. Portava dei clown italiani ma la cosa più spassosa era quando, nel pomeriggio, annunciava con tono circospetto: “Ragazzi, stasera verrà a cena un tipo che a voi dirà che di mestiere fa l’agente di commercio, ma sappiate che è una spia”. Vivere con Terzani era come vivere in un infinito film. E io per anni sono stato convinto che i babbi fossero tutti così».
Ancora una curiosità: dove andava in vacanza la famiglia Terzani?
«Di certo non su una spiaggia caraibica a prendere il sole. Per esempio ci portava in certe isole delle Filippine con mari molto mossi e sulla barca avevamo sempre paura di essere divorati dagli squali, ma la forza d’animo di papà, la sua energia fragorosa, la sua risata che sembrava avere l’eco, facevano diventare tutto un gioco. Qualche volta ci portava a vedere i combattimenti tra galli e allora lui si infervorava, faceva amicizia con gli scommettitori, li sgridava per scherzo. Lui era uno spettacolo teatrale».
Sua sorella ha scelto di vivere a Londra e di lavorare con le più importanti marche del lusso. Come la prese Tiziano?
«Semplicemente, ogni tanto le diceva: “Senti, ma stai sempre lì a vendere mutande firmate?”. Vede, so che è difficile da spiegare, ma mio padre è stato un grande cronista anche in questo senso: la coerenza prima di tutto, il rigore sopra ogni cosa. Oggi, che sono padre a mia volta di tre figli, lo capisco: dare delle linee guida chiare e il più possibile oneste intellettualmente, è uno dei compiti più delicati».
La rivalità con Oriana Fallaci è stata una costruzione giornalistica o c’era davvero?
«Di certo, dopo l’11 settembre e dopo i loro due clamorosi articoli pubblicati dal Corriere si è visto che ideologicamente erano molto distanti. Però io ho letto qualche lettera che si sono scambiati e ho visto che papà ammirava sinceramente la scrittura di Oriana, lui che prima di tutto metteva la verità e poi lo stile».
Lo ha mai accompagnato in qualche servizio?
«Una volta mi portò con sé quando andò a visitare una fabbrica cinese. Rimasi sconvolto: alla fine era il direttore della fabbrica che intervistava lui, e non il contrario. Un’altra volta andammo a trovare il fratello del Dalai Lama e Tiziano, senza scomporsi, mi indicò e gli disse: “Guardi, queste sono le giovani generazioni, dovete tenere d’occhio loro perché prima o poi si ribelleranno”. Ogni volta che ascolto Greta Thunberg mi torna in mente quel giorno».
Avete mai litigato in modo piuttosto acceso?
«Sì, una volta, in montagna e per giunta davanti a ospiti non italiani. Non ricordo bene i dettagli, ma lui mi stava dicendo per l’ennesima volta quello che avrei dovuto fare. Avrò avuto diciassette o diciotto anni. Non ressi e impugnai un coltello, che ovviamente deposi subito ma non bastò: non l’avevo mai visto così furioso. Diciamo che ho conosciuto il volto più tenero e magnanimo di papà negli ultimi anni della sua esistenza. Nel libro La fine è il mio inizio ho raccolto, su sua richiesta, i ricordi di una vita».
Che rapporto aveva con il denaro?
«Domanda molto interessante. Lui in questo era simile ai cinesi, che sanno essere mistici e insieme pragmatici. Non ha mai fatto niente soltanto per soldi, ma è sempre stato attento che i soldi non mancassero per sostenere la sua famiglia. Questo equilibrio è una delle cose che oggi più apprezzo in lui».
Come ha vissuto la malattia (un tumore, ndr.)?
«Da giornalista. Raccontandola, sviscerandola, cercando di ridurne l’impatto con il mezzo più formidabile che ha sempre avuto, la scrittura. Aveva solo sessantacinque anni, era nel pieno delle forze, io gli chiesi se davvero la morte non lo spaventasse e lui sa che cosa mi rispose? Che “sarebbe stato un nuovo viaggio, una cosa nuova da esplorare”».
La terza beffa ai danni del destino la racconta lei?
«Mio padre nella vita ha fatto tanto, dai reportage ai libri alle azioni spericolate. Io, invece, cerco una conquista eguale e contraria, il non fare. Cerco la quiete. Se il destino mi voleva simile a lui, allora questa è una beffa vera».
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