Corriere della Sera, 16 luglio 2024
Partita doppia
Non basterà cambiare candidato; per riaprire la partita, i democratici ora devono cambiare tutto.
La maledizione della violenza politica torna ad allungare la sua ombra sulla democrazia americana; nulla sarà più come prima. E non solo per la potenza della foto – il volto insanguinato, il pugno chiuso, la bandiera a stelle e strisce – e per quel grido «fight!», combattete, destinato a diventare da qui al 5 novembre lo slogan della campagna di Trump. L’impatto profondo sulle presidenziali sarà un altro.
Contro Trump, i democratici non devono solo darsi un altro leader (è chiaro che un ottuagenario che confonde Zelensky con Putin non può fare il presidente degli Stati Uniti; se i capi del partito non lo capiscono, glielo faranno capire gli elettori). Devono darsi anche un’altra strategia. L’attentato di Butler ha tolto loro la principale arma: sostenere che Trump ucciderebbe la democrazia americana. Perché d’ora in poi i repubblicani avranno buon gioco a rispondere – come ha già fatto il senatore Vance, non a caso indicato proprio ieri come vicepresidente – che una simile accusa farebbe sembrare legittima l’eliminazione fisica del candidato presidente; quello che stava per accadere in Pennsylvania.
E poco importa che l’attentatore non esca dalle file dell’estrema sinistra, che la sua storia e il suo gesto sembrino segnati più dalle turbe psichiche che dalla militanza politica. La storia americana insegna che gli attentatori escono subito di scena. Quasi mai sopravvivono. Se a oltre sessant’anni di distanza non è stato mai chiarito il mistero dell’assassinio di Kennedy, non c’è da attendersi grandi rivelazioni sugli spari di Butler.
Certo, la figura di Trump ha imposto una torsione al sistema politico americano. La sua responsabilità morale se non giuridica nell’assalto al Campidoglio è evidente. Resta da capire perché quella responsabilità non l’abbia indebolito, anzi.
I leader dem sono più popolari in Europa che non in patria. Soltanto noi pensiamo, ad esempio, che un impegno diretto di Barack Obama o di sua moglie rappresenterebbe una svolta inesorabile nella campagna elettorale. Lo stesso errore era stato commesso nel 2016, quando si credette che Hillary, sull’onda del ricordo buono (ma non buonissimo) lasciato dal marito Bill, fosse una candidata forte; mentre la Clinton, pur prevalendo nel voto popolare, perse tutti, ma proprio tutti gli Stati in bilico, non solo Michigan e Pennsylvania – dove aveva chiuso la campagna al fianco del marito e di Obama – ma pure il Wisconsin, che nei sondaggi della vigilia era considerato sicuro.
Non è il caso di fare troppe dietrologie. Chi, non senza ragione, trova incredibile che un cecchino possa appostarsi a centoventi metri da Trump, deve tenere conto anche di come funzionano le campagne elettorali in America: i comizi sono continui, gli incontri con i sostenitori frequenti, i leader sono sempre esposti. Trump com’è noto non ama il contatto fisico, non gradisce stringere mani, ma pure lui è sempre in giro, insomma ha esposto il fianco, almeno fino a ieri. Ha corso un rischio terribile; è certo più forte di prima; ma non è imbattibile. La coalizione che ha portato alla Casa Bianca prima Obama e poi Biden è ancora lì: donne, laureati, ceti medi delle grandi città, neri, latinos. Ma in questi anni la presa del partito democratico sulle minoranze si è indebolita, in particolare presso gli immigrati di lingua spagnola del Nevada, del Colorado, dell’Arizona, quelli di cui Reagan diceva: «Sono repubblicani, il problema è che non lo sanno». Cattolici, familisti, conservatori in tema di diritti civili, man mano che i latinoamericani si affrancano dalla mammella dello Stato tendono a spostarsi a destra. La spaccatura che si è aperta nelle file democratiche tra l’ala radicale e quella centrista ha fatto il resto. La guerra di Gaza è un problema soprattutto per i democratici, il partito che tradizionalmente rappresenta il grosso della comunità ebraica, e anche per questo è sentito distante dai giovani del movimento pro-Palestina. I ceti popolari e operai si sentono oggi più rappresentati da Trump che dallo spettro di Biden o dalla grande incognita che si nasconde dietro di lui. Un leader ferito ma in piedi è un leader più solido: quello di cui la maggioranza degli americani sente il bisogno.
Essere popolari in Europa può significare essere sgraditi in patria; perché se l’evidente declino dell’influenza Usa nel mondo è dovuto anche alla dottrina trumpiana del disimpegno – America first, prima viene l’America —, finisce per essere imputato a chi teorizza al contrario l’impegno, ma poi è costretto al ritiro, come dall’Afghanistan, o all’impotenza, come in Medio Oriente e in Nordafrica; per tacere l’incapacità di chiudere la guerra d’Ucraina.
Questo non significa che per i democratici sia finita. Ma serve sia una grande novità, sia una grande prudenza, per evitare che la partita decisiva venga giocata sul campo di Trump e con le sue regole. Più che gridare alla fine della democrazia, il modo migliore per opporsi a Trump è presentarsi come una forza pacificatrice, inclusiva, «tranquilla» avrebbe detto Mitterrand, in grado di tenere insieme la società e rappresentare l’America tutta intera, e non una sua fazione, su uno scacchiere mai così complesso.
Quanto a Trump, i toni dei giorni successivi ricordano quelli con cui reagì alla vittoria del 2016: da padre della nazione, in rapporto diretto con Dio, vittima designata ma sopravvissuta, vincitore generoso con i propri avversari. E in effetti può sembrare il modo migliore di capitalizzare il rischio corso, che agli occhi dei suoi sostenitori ne ingigantisce la figura. Però sappiamo che questa non è la vera natura di Trump. E che nei prossimi mesi il suo discorso sarà: volevano eliminarmi per via giudiziaria, volevano eliminarmi fisicamente; chi non si mobilita per me, chi non combatte – il fatidico «fight» —, farà il loro gioco. L’errore più grave dei democratici sarebbe adeguarsi a questo schema. Chi saprà porsi come il pacificatore, il rassembleur, il leader in grado di riunificare l’America, avrà le chiavi della Casa Bianca.