La Stampa, 17 luglio 2024
La matematica è un’avventura ma ci viene insegnata come una tecnica
C’è una strana comunanza fra due discipline in apparenza lontanissime come matematica e arte contemporanea: il loro posto nella cultura generale, nel sapere condiviso, ha qualcosa di fragile, sempre passibile di revoca.
Se chiediamo a qualcuno cosa pensa di un film o un romanzo importanti magari dirà che non legge, o non ha tempo, o non segue molto il cinema, accennando una mezza scusa, forse di facciata; nel caso di una mostra di arte contemporanea, o di un teorema, spesso ci si sentirà dire – con perversa fierezza, quasi come una rivendicazione – che quella roba là, io non l’ho mai capita. E questa incomprensione è spesso presentata come inscalfibile: mentre diamo per scontato che il pianoforte, il tiro con l’arco, il tedesco si possano padroneggiare almeno discretamente con un po’ di impegno e di tempo, consideriamo l’arte contemporanea e la matematica come qualcosa di diverso, montagne tanto impervie da legittimarci a dire, ancora alle pendici: non ce la farò mai.
Al contrario che per l’arte, però, nel caso della matematica questo è un problema sociale e politico. Come ha brillantemente sostenuto Chiara Valerio ne La matematica è politica (Einaudi, 2020), la matematica non ci serve solo perché dobbiamo calcolare che i ponti non crollino e il Wi-Fi funzioni, ma in un senso più generale. I suoi metodi di verifica e superamento degli errori forniscono una grammatica per la ricerca di una verità condivisa, un terreno solido su cui costruire ogni dibattito (che è ciò che, nelle democrazie di oggi, sta venendo sempre più a mancare). Valerio, da matematica, sottolinea come la scettica ostilità che suscita non dipende affatto dalla disciplina – «avventurosa come una giungla psichedelica» – ma da come è insegnata: «nel vuoto», come una serie di tecniche assolute e prive di storia, presentate come lontanissime dal vissuto di ognuno – e che in virtù di ciò lo diventano.
E così le ha viste per tutto il periodo di scuola Pietro Minto, giornalista e scrittore che ha da poco pubblicato per Einaudi La seconda prova, un racconto agile, spesso comico e a tratti parecchio complicato di come, da adulto, abbia deciso di provare a scalare la montagna che da ragazzo lo aveva scoraggiato. La seconda prova si legge come un diario di studio: Minto ricontatta il proprio vecchio professore delle superiori e decide di ripercorrere tutto il programma della materia – per curiosità, per noia, per senso di rivalsa – sino a confrontarsi, appunto, con la seconda prova. Al di là del puro e semplice apprendimento, il suo scopo sembra essere un altro: cercare di capire come mai quella disciplina gli fosse parsa tanto impervia, provare non solo a superare gli esercizi, ma a capirla, e a capirne la bellezza.
Gradualmente, ci riesce. Dopo alcune difficoltà iniziali che lo portano a tornare addirittura sui programmi delle medie (chi se le ricorda, le disequazioni?), Minto si addentra in questioni via via più astratte – l’algebra, la trigonometria, il calcolo infinitesimale. Benché, nel momento dello scrivere, siano cose che conosce, la sua scrittura gode di una sorta di bilocazione cognitiva che la rende particolarmente generosa: l’autore ricorda di quando non capiva e parla a chi è nella stessa situazione, con lo scopo non di fargliela capire, ma di fargli sentire che può – e che dovrebbe, non per ottenere un buon voto o per calcolare la portata di un ponte ma perché è un’avventura intellettuale appassionante, una scalata che vale la pena.
Il percorso di Minto – che alle questioni di geometria o analisi mescola variegate digressioni storiche e schizzi dei suoi anni al liceo – ricalca quasi alla perfezione quello auspicato da Valerio. La libertà di un adulto con Wikipedia gli permette di trovare la storia dietro ogni nozione presentata come assoluta e astratta, di riscattarla dal vuoto: ed è una storia umana, fatta di ossessioni e capricci e litigi, di idee abbozzate mollate e riprese, di scoperte prima contestate, poi universali, infine rivelatesi erronee. È questa la grammatica civile di cui parlava Valerio, che Minto comincia ad avvertire in filigrana attraverso i mille esercizi man mano che ci si avvicina alla seconda prova – e il lettore con lui.
Certo, il grosso del lavoro – che Minto fa e il lettore no – sono appunto quei mille esercizi, ma alla fine anche questo appare non come un mezzo ma un fine in sé – non solo la parete di roccia ma anche la vista dalla cima. Come scrive Chiara Valerio, e come illustra La seconda prova, «Sedersi a svolgere un esercizio di matematica e? un gesto di protesta nei confronti del presente, che sia urgenza percepita o stasi di forza maggiore, perche? studiare matematica significa riprendersi il tempo». Liberandola dalla valutazione scolastica e dai programmi ministeriali, riducendola a un hobby, Minto dimostra come, appunto, la matematica possa essere qualcosa che si fa per curiosità e piacere, per capire il mondo: che è ciò che chiediamo alla letteratura e al cinema e all’arte, ciò che è la cultura.
Come scrive un altro grandissimo esploratore delle terre di confine fra letteratura e matematica, Hans Magnus Enzensberger, ne Gli elisir della scienza: «La poesia della scienza non è palese. Invisibile come l’isotopo che serve alla diagnosi e alla misurazione del tempo, inappariscente eppure difficilmente rinunciabile come un microelemento, la poesia è all’opera anche là dove nessuno l’immagina»