La Stampa, 17 luglio 2024
I due Mozart
Otto febbraio 2004, episodio 1511 della serie The Simpsons. Titolo: Margical History Tour. Marge racconta ai figli la vita di alcune figure storiche, da Enrico VIII a Mozart. Per esemplificare, Bart diviene Mozart. Anzi, diviene Amadeus così come lo raccontò Milos Forman nel film. Cattiverie incantevoli: la frase che Homer-Leopold dice a Lisa- Salieri: «Oh, piccolo Salieri, perché non vai a giocare con gli altri tre membri della famiglia privi di talento, Tito Randy e Jermaine (nomi di tre dei Jackson Five)?». Bart-Amadeus, intanto, cita Jimi Hendrix suonando il pianoforte con i denti.Il libro da cui prende spunto la mia lezione, Mozart in Rock, è uscito molto prima di quell’episodio, nel 1990, a pochi mesi dal bicentenario dalla morte di Mozart. Occasione a parte, si era nel pieno di un dibattito sulla fruizione della cultura negli anni della postmodernità. Il termine rock, dunque, veniva utilizzato in modo simbolico: titoli più altisonanti come Mozart e la fine della metafisica o, a scelta, Il postmoderno in Mozart, avrebbero avuto lo stesso significato: il peso che una filosofia della mutevolezza e un’estetica del frammento avevano allora nell’approccio alla musica in generale. All’epoca, ci si trovava a difendere la cosiddetta Muzak, la musicaccia, la musica di sottofondo, musica da ascoltare distrattamente, in onta agli adorniani: ma anche la musica classica cominciava a venir ascoltata allo stesso modo, gadget inclusi. Mozart in Rock si riferiva insomma al Mozart conosciuto, amato e consumato nell’era del rock. Già negli anni Ottanta, molto prima che Mozart trillasse nelle suonerie di milioni di telefonini, non ci si limitava a idealizzarlo e a vagheggiarlo, a reinterpretarlo in disco, in concerto, in saggio o in biografia. Era un gadget supremo quello che ci veniva proposto: un celestiale marché aux puces imbandito di Mozart-orologio (con quale tempismo è stata immessa sul mercato una tiratura limitata di Swatch con silhouette mozartiana!), accessoriato con Mozart-coiffure (la moda del codino alla Amadeus, lanciata da più di uno stilista della chioma), nobilitato da Mozart-griffe (idem per quanto riguarda il dilagare di panciotti e jabots), confortato da Mozart-yogurt (cosa di più adatto, per la pubblicità di un alimento bianco e leggero, della fresca giovinezza dell’eterno fanciullo prodigio?).È cambiato qualcosa, a una trentina d’anni di distanza? Sì e no. L’abbinamento alla rockstar sembra persino essere divenuto pacifico, e più di un fan non disdegna di attribuirgli l’epitaffio che spetta ai musicisti maledetti e morti giovani, “It’s better to burn out than to fade away”.Bella sintesi, a ben vedere, fra i due Mozart su cui per secoli si sono divisi gli appassionati orecchianti e orecchiuti, il fanciullo baciato dal divino talento e il ribelle che muore in povertà e in piena giovinezza. L’apollineo e il dionisiaco, per rifarsi alla valutazione critica della produzione musicale. A operare la sintesi è stato quell’Amadeus di Milos Forman che davvero si è posto come punto di svolta nell’approccio moderno a Mozart, e che riuscì a comporre l’antica questione raccontando un ribelle rimasto bambino per l’eternità: si accordava benissimo, quell’immagine, con una società che all’epoca aveva cominciato ad accarezzare il mito di Peter Pan e che idolatrava l’Ariele per eccellenza, quel fanciullo senza età e senza sesso che era Michael Jackson. Non è forse consequenziale che amasse di un simile amore anche Mozart? È solo un caso che nei ribelli anni del rock Chuck Berry cantasse Roll over Beethoven e che, più tardi, esplodesse tra gli adolescenti quella sinistra ma efficace iniziazione alla musica beethoveniana e colta in assoluto dovuta ad Arancia meccanica? Esiste un nesso con il Rock me Mozart cantato dal punk Falco (He was the first punk ever/To set foot on this earth/ …. His mind was on/Rock and roll/And having fun/Because he lived so fast/He had to die so young)? E, ancora, come è possibile che in ogni epoca, assai prima che il rock venisse solo immaginato, Mozart sia stato oggetto di una venerazione culturale? E che già pochi anni dopo la sua morte impazzasse la moda delle cuffiette alla Papagena per le ragazze e dei flauti alla Papageno per i ragazzini?Già trent’anni fa si disse che l’importante era la musica di Mozart, non la sua vita e tanto meno la sua immagine. Giusto. Ma non valeva, non vale tuttora la pena di concentrarsi su quest’ultima e comprenderne il consumo? È più giustificato scandalizzarsi per il duettino del Don Giovanni inserito nella pubblicità dei cotechini o analizzare le modalità di fruizione che i destinatari dello spot applicano a quella musica (e forse anche ai cotechini)? Se fossero proprio quelle storielle, quelle figurine, quei cioccolatini a costituire, anche, un approccio diverso alla musica oltre che all’uomo? Se, insomma, immagine e prodotto artistico avessero conosciuto, proprio con Mozart, una connessione difficilmente spezzabile? O meglio, per continuare con le domande: ha senso continuare, o ritornare a concepire l’opera d’arte come necessariamente, categoricamente aliena dal consumo, dalla sola idea di poter venire etichettata come “prodotto”? Arte come ciò che è destinato a essere fruito da pochi, a non venir rimasticata e risputata come melassa per masse?Serviva a chiarire tutto ciò, quel libro? No. Si ostinava, tramite Mozart, a ritenere il nomadismo dei saperi una forma di conoscenza non meno legittima (e spesso non meno elevata), e a indagare incroci, crossover, mondi che appaiono tra i flutti, anche se destinati ad essere inghiottiti prima di poter diventare Atlantide. Infine, si ostinava anche a combattere l’idea di artista baciato da Dio che Mozart non ebbe di se stesso e che gli altri gli consegnarono: sapeva, lui, di essere un meraviglioso, eccezionale artigiano, ma non il figlio prediletto di una divinità. Fu uno skywalker, che attraversò e rubò e per sé medesimo restituì. E aveva ragione Piero Buscaroli: Mozart non ha inventato nulla. Ha reso perfetto quel che c’era. —