Avvenire, 16 luglio 2024
Giochi per soldi
Si chiama Paavo Nurmi, e nasce nella casa più povera della via a Turku, in Finlandia. In sei in una stanza, senza acqua né luce. Inizia a camminare da piccolo, e non smette più. Si scopre atleta sotto le armi, marciando con fucile e zaino pesante. Ma si può anche correre, e Paavo corre. Ha ritmi da fonderia, con lui non c’è gara. Vince 9 medaglie d’oro alle Olimpiadi: comincia ad Anversa nel 1920 e finisce a Amsterdam nel 1928. Sarà l’ultima, perché poi lo squalificano prima dei Giochi di Los Angeles. La colpa? Essersi fatto rimborsare le spese di una trasferta. Non poteva immaginare Paavo Nurmi che quasi 100 anni dopo, per la prima volta nella storia, la Federazione mondiale di atletica leggera – emanazione diretta del Comitato olimpico internazionale – premierà con 50 mila dollari (circa 46 mila euro) ciascun vincitore di una medaglia d’oro nelle 48 specialità dell’atletica ai Giochi di Parigi, al via tra dieci giorni. Una svolta epocale, clamorosa. Le cifre sono state ufficializzate mesi fa da Sebastian Coe, presidente della Federazione di atletica che ha accantonato 2,2 milioni di euro per pagare i premi: le staffette vincitrici divideranno i 50 mila dollari fra i vari partecipanti, mentre premi anche per le medaglie d’argento e di bronzo sono previsti a partire dalle Olimpiadi successive, quelle di Los Angeles 2028. Per soldi o solo per sport, questo è il problema. E “professionismo” resta una parola biforcuta. Ipocrisia al quadrato se associata alle Olimpiadi. La convinzione che i Giochi antichi fossero finiti perché invogliavano alla truffa spinse Pierre de Coubertin a escludere da quelli dell’era moderna chi guadagnava soldi facendo sport, tranne i maestri di scherma. Battaglia di posizione, durata fino a Seoul 1988, tendente a salvaguardare il carattere aristocratico dell’agonismo. Lo spirito doveva essere quello della bella gara, non della vittoria a ogni costo. Ottimo principio. Soprattutto per chi non aveva bisogno di lavorare, e per lasciare che una casta di nobili vincesse competizioni alle quali non tutti potevano partecipare. Come Henry Pearce, il vogatore australiano che nel 1928 ad Amsterdam, in una batteria della sua prova si fermò per lasciar passare una famigliola di anatre che attraversava il campo di gara. Poteva permetterselo: di professione faceva il ricco. E vinse lo stesso.
Anche Jim Thorpe, statunitense, atleta fenomenale che nel 1912 a Stoccolma fu campione olimpico nel pentathlon e nel decathlon, si vide togliere mesi dopo le sue due medaglie d’oro quando si venne a sapere che tempo prima era stato pagato per giocare qualche partita in un torneo estivo di baseball. Resta il fatto che per oltre due terzi della loro storia, i Giochi sono stati riservate ai cosiddetti “dilettanti”. Almeno sulla carta, anche quella Olimpica. Peccato che, come sottolinea il libro The Rise and the Fall of Olympic Amateurism di Matthew Llewellyn e John Glaves, il dilettantismo il Cio non è mai stato capace nemmeno di definirlo in maniera universale perché mancava una singola caratteristica comune a tutti i casi. Salvo poi cancellarlo, anche come termine, dal 1975 per consentire agli atleti di essere pagati per il tempo dedicato all’allenamento e per poter indossare – salvo durante i Giochi materiale pubblicitario per incassare i proventi delle sponsorizzazioni.
La liberalizzazione, prima ambigua e poi ufficiale, è avvenuta in maniera progressiva: nel tennis, ad esempio, i professionisti furono invitati già dall’edizione di Seoul 1988; i cestisti dell’Nba americana ebbero il via libera a partire da Barcellona 1992, mentre il ciclismo su strada dovette attendere Atlanta 1996. Con il pugilato che è stato l’ultimo sport ad aprire le porte al professionismo nel 2016. Ma la disputa ideologica e morale sull’ammissibilità o meno di accettare atleti che lo sport lo fanno di mestiere ha occupato decenni di storia. Con un italiano, Carlo Airoldi, che fu il primo a sollevare – suo malgrado – il problema. I Giochi erano quelli di Atene 1896, i primi dell’era moderna. Originario di Origgio (Varese), in Grecia Airoldi ci arrivò dopo più di un mese di viaggio, quasi tutto a piedi, attratto dalla possibilità di gareggiare nella corsa e nel ciclismo. La rivista “La Biciclet-ta”, alla quale peraltro collaborava, gli aveva finanziato la trasferta in cambio dei suoi resoconti. Quando arrivò, ammise candidamente che aveva ricevuto premi in denaro per le sue vittorie. Lo fermarono subito e gli impedirono di partecipare alla maratona.
In generale, per gran parte del Novecento il Comitato olimpico internazionale si è dovuto districare tra due realtà sempre meno conciliabili: da una parte la crescita delle Olimpiadi e il desiderio che vi partecipassero sempre i migliori atleti al mondo, e dall’altra la volontà di non rinunciare al principio – almeno di facciata – del dilettantismo, elemento distintivo e motivo di vanto dell’identità olimpica. Ad aiutare il Cio in questa operazione di equilibrismo, molto hanno contribuito le singole Federazioni sportive nazionali che hanno di fatto costruito un professionismo di Stato, accettabile e liberatorio anche per i criteri olimpici. Prima nell’Italia fascista e nella Germania nazista, ma anche nei Paesi socialisti, con gli atleti d’élite che godevano di privilegi speciali, almeno in quel contesto. Fino alle Università americane che hanno sempre garantito borse di studio agli atleti di spicco. Oggi sono i corpi sportivi militari delle forze armate a inquadrare la maggior parte degli atleti che parteciperanno a Parigi 2024. Come volontari in ferma pluriennale e in servizio permanente d’interesse nazionale, percepiscono lo stipendio di un normale dipendente pubblico, al quale si sommano finanziamenti mirati, sponsorizzazioni e borse di studio. A Tokyo 2020, su 384 azzurri, i “militari” erano 129, più i 72 tesserati delle Fiamme Oro e dei Vigili del fuoco. L’Italia si distingue anche per la generosità: anche a Parigi chi conquisterà un oro verrà premiato dal Coni con 180 mila euro, l’argento ne vale 90 mila, e il bronzo 60 mila. Cifre che comunque non faranno svoltare la vita, anche perché sono tassate al 42%.