il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2024
Le lacrime di fronte alla meraviglia divina dell’Agnello mistico, il capolavoro di Jan van Eyck
Nella primavera di qualche anno fa io e due miei amici d’infanzia decidemmo di partire per Waterloo: volevamo calpestare il prato sul quale Napoleone perse la sua ultima battaglia. Guardare con i nostri occhi ciò che vide lui in quel suo ultimo atto da protagonista, interprete unico di un momento storico rivoluzionario. E quando, dopo ore di viaggio, arrivammo su quel prato ci accolse un vero e proprio diluvio, uno di quelli che neanche gli ombrelli riescono a tenere. Mi venne in mente che erano le stesse condizioni climatiche che c’erano in quei giorni fatidici di battaglia: l’esercito di Napoleone era da giorni sotto l’acqua, i ragazzi erano stremati, l’artiglieria bagnata, un vero diluvio, però quando arrivò lui tutti si galvanizzarono. A tal punto che Fabrizio Del Dongo, nella Certosa di Stendhal, torna da Waterloo convinto di aver vinto: gli sarebbe bastato avere un visione alla Victor Hugo, cioè un po’ dall’alto, come fosse Dio, per capire che avevano perso, chiosò qualche anno fa Umberto Eco. Comunque sia qual giorno fu indimenticabile quasi come quello in cui – apro parentesi – anni ancora addietro, calpestai il prato della battaglia di Campaldino a piedi nudi per sentire la terra calpestata da Dante durante la storica battaglia contro Arezzo.
Chiusa la parentesi, andiamo avanti: in quel giorno di Waterloo non potevo sapere che la vera e indimenticabile emozione che avremmo vissuto non era quella, bensì il giorno dopo, a Gand. Da tempo volevo vedere dal vivo una delle opere d’arte più importanti del rinascimento fiammingo: il polittico dell’agnello mistico di Jan van Eyck, forse una delle opere più sorprendenti della storia dell’arte. Un polittico composto da ventiquattro pannelli di legno di quercia dipinti, fronte e retro. Così quando lo si chiude ha un significato mentre quando lo si apre ne ha un altro. Aperto ha una dimensione mastodontica: 3,75 metri di altezza per 5,20 di larghezza. È nella chiesa di San Bavone – confesso che mai sono stato così vicino alla sindrome di Stendhal (appunto) che toglie il fiato e dopo la quale se non bevi un bicchiere di vino rosso rischi davvero di perdere i sensi. Non mi era mai successo, né con la Cappella Sistina, né con la Cappella degli Scrovegni, né con Amor sacro e amor profano di Tiziano, mai. Quest’opera è impossibile raccontarla tutta – ci vorrebbe un libro – perché sono ventiquattro pannelli, dove c’è di tutto. Ci sono Dio, la Vergine, Giovanni Battista. Ci sono Adamo ed Eva, con un Adamo che verrebbe da descriverlo come “umano troppo umano”: si tiene una mano davanti al petto, con l’altra si copre il sesso e con il piede sta camminando, come se uscisse dall’uscio di casa. Ed Eva?
Si intravede in lei una lieve gravidanza, in fondo è la madre di tutti, e anche lei è talmente donna che quasi la foglia del fico non le copre completamente il sesso. E ha in mano il frutto del peccato. C’è anche l’Annunciazione, probabilmente dipinta dal fratello di Jan, Hubert, perché c’è un’iscrizione nella cornice interna che dice “Quest’opera è stata iniziata da Hubert van Eyck, il primo fra tutti nell’arte e completata dal fratello Jan van Eyck, il secondo nell’arte.” In realtà di Hubert non si sa nulla, non c’è nessun’altra opera conosciuta. Che sia stata una trovata di Jan? Chissà. Tutti dettagli meravigliosi, ma l’unicità è il pannello centrale. Cosa vediamo? E dove siamo? Siamo nel Paradiso Terrestre e lo si intuisce non solo per Adamo ed Eva ma perché la vegetazione, i fiori, le piante sono in esplosione completa. Pare che Jan van Eyck ne abbia dipinti trecentocinquanta tipi di vegetazione diversa. Ogni singolo fiore è una storia a sé, d’altronde questo è la pittura fiamminga: dettaglio. In alto c’è la Colomba, si vedono i raggi dello Spirito Santo che arrivano e irradiano l’umanità, campanili sullo sfondo, qualcuno ha riconosciuto anche il campanile della città di Utrecht, chissà se è lei. Ma veniamo al protagonista, l’agnello: è contornato dagli apostoli, dai padri fondatori della Chiesa, da persone comuni. Sono tutti in adorazione dell’Agnello mistico. Intorno a quest’altare ci sono angeli che hanno i segni della Passione di Cristo, c’è il Crocifisso. C’è la lancia con la quale Longino ha inferto il colpo nel costato di Gesù, c’è la corona di spine. Ci sono tanti simboli della Passione, ma sull’Altare c’è lui, il vero protagonista tra tante “distrazioni”: l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Sta uscendo sangue dal suo petto, che sgorga in un calice che darà vita al Santo Graal. Poco più sotto, la fontana della Vita, la fontana con l’acqua Santa. Tutto è simbolico, tutto è allegorico. La cosa che colpisce più di ogni altra è il muso dell’agnello, emerso nella sua originalità solo dopo un recente restauro: nella pulitura del musetto dell’Agnello mistico è uscito qualcosa di sorprendente: il vero volto dipinto da Jan van Eyck, impressionante.
Non è il muso di un agnello ma il volto di un uomo: gli occhi non sono laterali ma frontali, così come il sorriso, non è quello di un animale, è quello di un uomo. Probabilmente la riscrittura post rinascimentale voleva cancellare questa verità: un volto di Agnello troppo umano, troppo difficile da guardare negli occhi, perché guardando lui si guardava il volto di Dio. E allora, chissà, forse i fedeli non riuscivano a reggerne lo sguardo (congettura mia). Prima di entrare nella chiesa di San Bavone i miei amici mi chiesero un’introduzione all’opera, volevano entrare un po’ preparati. Dissi loro solo una cosa: immaginatevi nel 1432 i Paesi Bassi: la vita era fatta di luce, lavoro, mangiare, buio, dormire. Fine. Non c’era niente, non c’erano neanche i libri.
Però la gente sentiva parlare di questo Agnello mistico, di questa raffigurazione di Dio che era dentro la chiesa. E allora cosa facevano? Magari si organizzavano in gruppi di tre, quattro, cinque persone e partivano per Gand, per andare a vedere questa cosa. Magari impiegavano due o tre settimane a cavallo, attraversando le Ardenne, la pioggia, dormendo all’addiaccio. Ma pensate – dissi ai miei due amici – allo stupore quando solcavano il sagrato e vedevano il volto di Dio. “Entrate – dissi loro – e provate a conservare un briciolo dello stupore di quelle persone del Quattrocento, il resto si racconta da solo”. Così fecero, e quando si trovarono di fronte a questa opera rimasero a bocca aperta. L’unica cosa che non riuscirono a fare fu quella di trattenere le lacrime. E io con loro.