il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2024
Valentini ricorda Pansa
Quando lo conobbi a Roma, all’inizio degli anni Settanta, ero già un suo fervido ammiratore. Leggevo e sottolineavo con la matita rossa e blu in mano i suoi articoli, dalla scrittura fluida e accattivante, nel tentativo di carpirne i segreti come si fa osservando un campione di calcio o di tennis. Era l’epoca della prima tranche del processo contro Pietro Valpreda, il ballerino anarchico accusato ingiustamente della strage di piazza Fontana, nel cuore di Milano, che il 12 dicembre 1969 aveva causato la morte di 17 persone. E Giampaolo Pansa, allora inviato della Stampa di Torino, poi due volte vicedirettore a Repubblica e all’Espresso, grande cronista in fuga solitaria, guidava la pattuglia dei colleghi più giovani che seguivano il dibattimento: tra cui Walter Tobagi per il Corriere d’Informazione, quotidiano milanese del pomeriggio che si stampava in via Solferino, e il sottoscritto per La Gazzetta del Mezzogiorno.
Alloggiavamo tutti e tre al vecchio Hotel Moderno, in via Minghetti, nel centro nevralgico della politica romana, a due passi da piazza Colonna e palazzo Chigi. Giampaolo era capace di svegliarci all’alba solo per andare a scrutare il volto e l’espressione di zia Rachele che si recava a visitare il nipote Pietro in carcere. Pansa aveva, già allora, un gusto quasi maniacale per la cronaca vista con i propri occhi e raccontata in diretta: un’attitudine che, in seguito, lo portò a adottare il suo famoso binocolo nei congressi di partito per sbirciare dalla tribuna-stampa le mosse e gli atteggiamenti dei leader politici sul palco.
Pochi mesi dopo, lo ritrovai a Milano in occasione dell’assassinio di Luigi Calabresi, il commissario di Polizia ucciso davanti alla sua abitazione da un commando terroristico di Lotta Continua a colpi di arma da fuoco. E anche lì, secondo il mantra che il buon giornalista deve consumare la suola delle scarpe, lui ci spinse a percorrere nottetempo a piedi il tragitto che il corteo funebre avrebbe compiuto il giorno dopo, per verificare passo dopo passo i punti critici in cui avrebbe potuto verificarsi un attentato. Così diventammo amici e negli anni successivi trascorremmo qualche weekend nella sua casa di campagna a Casteggio, nell’Oltrepò pavese, e alcuni periodi di vacanza con le nostre rispettive famiglie, d’inverno a Courmayeur e d’estate in Puglia.
Nel 1978, dopo aver lasciato il Corriere della Sera, Pansa fu nominato vicedirettore di Repubblica. Diciamo vicedirettore ad personam, perché quel ruolo era già ricoperto da Gianni Rocca, un fedelissimo di Eugenio Scalfari. Fin dall’inizio, il nuovo acquisto di punta era destinato perciò a fare il “falso nueve” come si dice nel calcio spagnolo. Il tempo s’incaricò di dimostrare che Giampaolo era formalmente un numero due ma non ne aveva l’attitudine né l’inclinazione. Era un grande solista, un “primo violino”, un individualista poco adatto a coordinare e gestire il lavoro degli altri. Nonostante la sua forte personalità, non riusciva a imporsi sulle diatribe professionali di redazione. Anzi, al contrario, spesso le provocava o le alimentava, finendo per irritare Scalfari che guidava il giornale con grande souplesse e carisma. Non aveva, insomma, la vocazione del “gregario”: lui, per restare nel gergo ciclistico, era sempre davanti al gruppo.
Quando, a metà degli anni Ottanta, lasciai la guida della redazione milanese di Repubblica per tornare a Roma a dirigere il settimanale L’Espresso, proposi a Giampaolo di tenere una rubrica fissa intitolata laicamente Chi sale e chi scende. Si trattava, numero per numero, di scegliere un personaggio d’attualità e di “premiarlo” o “punirlo” a seconda di ciò che aveva detto o fatto. Una sera di luglio, a cena al ristorante Vecchia Roma in piazza Campitelli, concordammo – per esempio – di parlare bene di Giorgio Almirante putacaso se lo fosse mai meritato e male di quel galantuomo di Sandro Pertini se avesse commesso un errore o magari una gaffe. Era, insomma, una rubrica tagliata su misura per il Pansa di quell’epoca, cronista e giornalista di razza. E lui, infatti, la gestì nel modo migliore.
Alcuni anni più tardi, malmostoso e irruente qual era, prese cappello per non essere stato preventivamente informato di una scelta del giornale a favore dei referendum sulla giustizia e se ne andò a Panorama diretto da Claudio Rinaldi, dove tenne una rubrica a senso unico intitolata Il Bestiario. E pretendeva di chiamarla allo stesso modo quando chiese di rientrare all’Espresso, dopo che Rinaldi fu cacciato da Silvio Berlusconi nuovo padrone della Mondadori. Ma noi ne avevamo già una intitolata così, dedicata agli animali e affidata all’etologo Giorgio Celli. Ne battezzammo perciò un’altra, La Colonna infame, più raffinata e letteraria, di manzoniana memoria.
Per tutti questi motivi di antica consuetudine e anche di amicizia personale, mi dispiacque che Giampaolo – assunto e nominato vicedirettore da Claudio – non ricambiasse il mio saluto sul giornale quando lasciai nel ’91 la direzione dell’Espresso per volere del nuovo proprietario, Carlo De Benedetti. A quanto mi hanno riferito successivamente diversi colleghi, anche in questo ruolo Pansa non riuscì mai a diventare effettivamente il numero due. Lui magari teneva banco nelle riunioni di redazione, lanciando idee o proposte che poi però non venivano raccolte e realizzate. Ma quella funzione cruciale era delegata in realtà all’altro vicedirettore, Antonangelo Pinna, detto Toni, già stretto collaboratore di Rinaldi a Panorama. In un giornale, come in un’orchestra, è raro che un “primo violino” riesca a salire sul podio.
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