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 2024  luglio 16 Martedì calendario

Daniele Di Gennaro racconta i trent’anni della casa editrice minimum fax. Dalla scoperta di Foster Wallace ai giovani che avrebbero vinto lo Strega



 
Trent’anni fa nasceva una rivista underground di qualche foglio che poi sarebbe diventata una casa editrice indipendente di successo. La storia di minimum fax ha il sapore di una piccola Silicon Valley dell’editoria nostrana: due ventenni talentuosi, una visione, pochi soldi, colpi geniali come la pubblicazione di Carver in Italia e un fiuto nel lanciare giovani che poi sarebbero diventati protagonisti della nostra letteratura. Un trentennio, oltre 1.200 libri pubblicati, una factory che non si è limitata a produrre libri ma eventi, film, reading teatrali, book party, corsi di scrittura ed editoria. Nel 2005 nasce minimum fax media per la produzione audiovisiva (a settembre sarà in sala Invelle di Simone Massi, un film di animazione).
Ripercorriamo un pezzo di quel viaggio con Daniele Di Gennaro, publisher oggi cinquantasettenne che di quel ragazzo conserva l’entusiasmo. L’ultimo colpo riuscito è l’originale romanzo biografico di Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica, tra i finalisti del Premio Strega.
Come è iniziata l’avventura?
«Tutto nasce da una rivista via fax. Dieci fogli A4 per dodici numeri all’anno, per noi una palestra di editoria e un pretesto per iniziare ad annusare il mondo dei libri. Allora non c’era Internet, quindi fece scalpore sulla stampa. Anche troppo, sembrava una follia. Fu il primo approccio. Con un po’ di riviste fotocopiate andammo al Salone del libro di Torino. Nel maggio 1994 pubblicammo i primi due volumi».
Quali erano?
«Segreti d’autore di Luigi Amendola, un libro di interviste ai poeti. Amendola fu una specie di padre per noi, credeva nella sensualità della parola, nel suono della scrittura. L’altra pubblicazione era Scrivere è un tic di Francesco Piccolo, ora di nuovo in libreria (per Einaudi, ndr). Ricordo il primo Salone con Piccolo al volante dell’Espace del padre, nel centro di Torino tamponammo una macchina della Digos: finimmo perquisiti con le mani al muro».
Con lei c’era Marco Cassini.
«Eravamo due ventenni squattrinati, abbiamo iniziato in un ufficio a Ponte Milvio: una stanza con un tavolo, un telefono e un computer. Eravamo profughi da giurisprudenza, senza quel rispetto sacrale per l’editoria che da studenti di lettere avrebbe forse potuto bloccarci. Abbiamo azzardato. Erano altri anni, c’erano le condizioni per poter provare e sbagliare».
Oggi non è più così?
«È più tosta adesso, gli spazi sono più stretti, per essere distribuito devi dare garanzie. Negli anni Novanta poi c’era solidarietà nell’ambiente, tra editori, librai, distributori, grafici. Era una primavera romana. L’editore smetteva di essere una figura inarrivabile e iniziava a vivere tra i lettori, immerso in un flusso di apprendimento costante. L’ascolto è una qualità importante per chi fa il mio mestiere. Abbiamo molti debiti di riconoscenza, soprattutto con i lettori più attivi».
Avete trasformato in casi editoriali grandi classici. La svolta fu con Carver?
«Prima di lui Bukowski nel 2002, aiutato dal successo dello spettacolo di Haber. Le sue poesie in Italia non erano conosciute. Ci aiutò la voce: Tiziano Scarpa, che ne era il traduttore, portò in giro letture strepitose di Tutto il giorno alle corse di cavalli… Condividevamo una passione per la Beat Generation, avevamo già pubblicato Ferlinghetti. Carver, certo, fu il vero salto: arrivò nel 2008, primo libro Racconti in forma di poesia, poi il bestseller Da dove sto chiamando».
Ci fu un’asta diventata mitica in cui soffiaste Carver a Einaudi.
«La vedova, la poetessa Tess Gallagher, scelse noi. Non ci credevamo, lei ci scrisse via fax: “Come ci si sente ad essere i nuovi editori di Carver?”.
La convinse, credo, il nostro progetto di dedicargli un’intera collana e la ritraduzione completa da parte di Riccardo Duranti. La notizia era tale che mettemmo in piedi un festeggiamento estemporaneo alla Palma, locale jazz romano allora in voga. Vennero in tanti. E quando Carver è passato a Einaudi, è arrivato Malamud e poi Yates, scrittrici come Flannery O’Connor, Annie Proulx e Mary McCarthy».
E Foster Wallace. È vero che ne acquistate i racconti per 500 mila lire?
«Non ricordo la cifra, ma sicuramente lo prendemmo per molto poco, Wallace era sconosciuto. Pubblicammo un’antologia importante, Burned Children of America, curata da Martina Testa e Marco Cassini, dove c’era un suo racconto che diede il titolo al libro. L’antologia poi fu venduta alla Penguin».
Stiamo trascurando il versante italiano, siete stati talent scout.
«Nella narrativa italiana abbiamo pubblicato gli esordi di Nicola Lagioia, Paolo Cognetti, Valeria Parrella. Lagioia è diventato il nostro editor della collana Nichel, gli è succeduto poi Fabio Stassi, a cui dobbiamo diversi successi. Mi permetta di fare qualche altro nome della squadra attuale: Dante Impieri, editor della narrativa straniera; Valeria Veneruso, editor della narrativa italiana; Chiara Rea, editor della saggistica; Carlotta Colarieti, che dirige la collana di graphic novel Cosmica. Luca Briasco, direttore editoriale, è il mio attuale socio: è stato per me un incontro decisivo. Veniva dalla grande editoria, da sette anni stiamo unendo le forze con entusiasmo».
Ultimo fatturato.
«Un milione e mezzo, abbastanza stabile negli ultimi anni, tranne un picco oltre i due milioni nell’anno in cui Remo Rapino ha vinto il Campiello».
Totale libri pubblicati.
«Oltre 1.200 in trent’anni. Oggi tra i 40 e i 50 l’anno».
Ora Marco Cassini dirige Sur. È stato un divorzio consensuale?
«Inizialmente non facile: è stata una sua iniziativa. Ma era finito un ciclo, Marco voleva fare altro e da solo, era legittimo. La nostra è stata una corsa esaltante, le cose però cambiano e questa nuova fase per me è altrettanto soddisfacente».
Continuate a sentirvi?
«Ci incontriamo alle fiere perlopiù. Ma non posso che ricordare cose belle».
Provi a sintetizzare in un aggettivo l’anima minimum.
«Sfidante».
Cioè?
«Una letteratura che forza i canoni, prende dei rischi, che non è consolatoria. Il libro di Tommaso Giartosio Autobiogrammatica ad esempio. Ma penso anche ad autori come Giordano Meacci, Remo Rapino, Veronica Galletta, Davide Rigiani, Graziano Gala (in arrivo Pop off un romanzo sorprendente che fa largo uso di endecasillabi). Tutti spiriti liberi, che creano nuove realtà anche sul piano linguistico».
Questa attenzione al suono spiega forse la pubblicazione di molte biografie di musicisti.
«Ci interessa captare un sentimento sociale, quello che Raffaele La Capria chiamava il “senso comune”, osservando la trasformazione dei linguaggi e delle arti. Quel sentimento che ha creato relazioni umane e professionali fra Andy Warhol, Miles Davis e David Bowie, per esempio. La musica per me è fondamentale, sarà che suono la chitarra e il sax, o forse lo devo a mio padre Paolo, un impiegato appassionato di libri che declamava poesie a memoria».
Scelga una colonna sonora per minimum fax.
«Miles Davis, Stevie Wonder e Tom Waits. Ma si tratta solo di gusti personali. La casa editrice è il risultato di un’esperienza di gruppo».
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