la Repubblica, 16 luglio 2024
Joan & John sognando California
Scrive Joan Didion nella raccolta White Album del 1979 che un posto «appartiene per sempre a chiunque lo rivendichi con più forza, lo ricordi in modo più ossessivo, lo strappi da se stesso, lo modelli, lo trasformi, lo ami così radicalmente da ricrearlo a sua immagine e somiglianza», e dunque il Kilimangiaro appartiene a Ernest Hemingway, Oxford, Mississippi a William Faulkner e Honolulu a James Jones. Risponde Michiko Kakutani in una recensione del libro uscita sul New York Times, che allora la California appartiene a Joan Didion. Era nata a Sacramento, da una famiglia borghese. La madre, Eduene Jerrett Didion, si presentò al futuro marito di Joan – che incontrò per la prima volta il giorno del matrimonio, nel 1964 – con queste parole: «Sa quelle vecchie signore in scarpe da tennis di cui le sarà capitato di sentire? Ecco, io sono una di quelle». Anche John Gregory Dunne, il marito, era uno scrittore. Il loro, racconta il fratello di lui, sarebbe diventato quel genere di matrimonio perfettamente assortito in cui l’uno finisce le frasi dell’altro. Ma anche quel genere di matrimonio in cui se uno due sparisce per 18 mesi, l’altro lo aspetta.
Afflitto dal blocco dello scrittore, incapace di una sola pagina decente, fu Dunne ad andarsene a un certo punto, a Las Vegas, dove si stabilì in un motel frequentato da prostitute, giocatori di poker e comici falliti. Funzionò: lì scrisse il romanzo che sarebbe uscito nel 1974,
Vegas: a Memoir of a Dark Season. Nel 1969 Didion scrive un articolo da Honolulu, c’è stato un terremoto nelle isole Aleutine e si teme l’arrivo di uno tsunami. Ma il bollettino è molto tranquillizzante: «In assenza di un disastro naturale siamo di nuovo abbandonati a noi stessi e ai nostri problemi. Siamo qui su questa isola del Pacifico invece di sbrigare le pratiche per il divorzio». Era dunque anche quel tipo di matrimonio, ma funzionò per tutti i quarant’anni che ebbe a disposizione.
Joan e John lavoravano anche insieme, scrivevano sceneggiature per il cinema – tra queste quella diÈ nata una stellanella versione del 1976 diretta da Frank Pierson e interpretata da Barbra Streisand – ma soprattutto erano l’una il primo lettore dell’altro. Quando si sposarono andarono ad abitare a Franklin Avenue, in affitto, in una grande casa losangelina in cui le tubature si rompevano, i telai delle finestre si sbriciolavano, ma le stanze erano numerose e i soffitti alti. In quella casa si facevano feste che cominciavano il sabato sera e finivano lunedì, Joan cucinava grandi pentolate di zuppa di lenticchie e non era mai sicura di chi dormisse in ciascun letto. È il 1968, gli studenti occupano le università e Didion va, vede, racconta. Non smette di appuntarsi i numeri di targa dei furgoni, troppi, che passano sotto le sue finestre. C’è in giro molta paranoia, la polizia, le droghe psichedeliche… Se le segna e poi nasconde i foglietti in un cassetto, nel caso succeda qualcosa. E qualcosa succede, infatti. La notte dell’8 agosto 1969, a Cielo Drive, cinque membri della famiglia Manson entrano in una villa e uccidono cinque persone, tra le quale Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, incinta di 8 mesi e mezzo. Si dice che anche Sergio Leone fosse stato invitato a quella festa, ma era stanco e declinò.
«Quando Quintana era ancora piccola», scrive John Dunne nel discorso che leggerà al matrimonio della figlia, «ci trasferimmo a Malibu, in una casa affacciata sul Pacifico».Alcune foto li ritraggono insieme, sorridenti, affacciati alla balaustre di legno della terrazza di quella casa. Didion era alta un metro e 54 e pesava poco più di 40 chili, fumava incessantemente, soffriva di fortissime emicranie e aveva già avuto una diagnosi di sclerosi multipla e un ricovero psichiatrico a seguito di un attacco di vertigine e nausea. Lo stesso anno in cui veniva nominata donna dell’anno dalLos Angeles Times.
Avrebbero vissuto in quella casa dal 1971 al 1978, a stretto contatto coi vicini. Non aveva riscaldamento, usavano il camino del soggiorno per scaldarla, il vento soffiava dai canyon e gemeva sotto le grondaie e sollevava il tetto, i serpenti reali cadevano dalle travi del garage nella Corvette aperta. Joan preparava per Q, come la figlia veniva chiamata, degli squisiti pranzetti da portare a scuola, racconta ancora Dunne in quel discorso, pollo fritto fatto in casa e fragole con la panna acida, io la accompagnavo a scuola. Era il 26 luglio 2003, ma «la vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita», come avrebbe scritto qualche anno più tardi Didion nel suo libro più famoso, finalista al premio Pulitzer, vincitore del National Book Award:L’anno del pensiero magico. Il 30 dicembre 2003, cinque mesi dopo il matrimonio di Q e Gerry, John muore d’infarto nella loro casa di New York. Q è ricoverata da 5 giorni nel reparto di terapia intensiva del Beth Israel North Hospital, con una diagnosi di influenza trasformata in polmonite e shock settico. Sopravviverà, ma morirà il 26 agosto 2005, a 39 anni, per una pancreatite acuta, senza aver mai recuperatola piena salute. «Le stelle non servono più: spegnetele a una a una;/ smontate il sole e imballate la luna;/ strappate le selve e scolate tutto il mare./Nessun piacere potrà mai tornare», scrive Auden nella celebre Funeral Blues, che Didion non lesse alla cerimonia funebre per suo marito. Q la implorò di non farlo, pensava che fosse brutta, sbagliata, pensava che fosse ingiusto soffermarsi così rabbiosi davanti al dolore dell’assenza.