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 2024  luglio 15 Lunedì calendario

Intervista a Calogero Mannino

Cosa spinse Mikhail Gorbaciov a rompere il cerimoniale durante la sua ultima visita di Stato a Roma? Perché nei saloni del Quirinale, facendosi largo tra gli ospiti, si precipitò ad abbracciare il ministro dell’Agricoltura italiano? Era il 29 novembre del 1989 e il destinatario del gesto fu costretto a mentire persino al capo dello Stato per non rivelare un’operazione segreta di sei anni prima. Oggi Calogero Mannino – un pezzo di storia democristiana – racconta il motivo per cui quel giorno Gorbaciov volle incontrarlo. «Il segretario generale della presidenza della Repubblica, Sergio Berlinguer, mi aveva telefonato la settimana precedente per dirmi che Mosca aveva fatto una richiesta specifica: considerava “necessaria” la mia presenza al brindisi per il leader sovietico. Dunque, non potevo mancare».
E Mannino non mancò. «Quando fu il mio turno, entrai nel salone per rendere omaggio all’ospite. Ero in compagnia di mia moglie e vidi le massime cariche dello Stato schierate a fianco di Gorbaciov: c’erano il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il presidente del Senato Giovanni Spadolini e il presidente della Camera Nilde Iotti. Appena annunciarono il mio nome l’invitato ruppe la fila, mi venne incontro, mi abbracciò e mi sussurrò: “Le devo un ringraziamento ritardato”. Lo disse in russo, ma accanto si era precipitato un interprete che mi tradusse la frase. Dopo un attimo di smarrimento capii a cosa si riferiva. E un po’ tremai. Perché alla fine della presentazione tutti mi interrogarono: Cossiga per primo, ma anche la signora Iotti».
E lei cosa raccontò?
«Non la verità. Spiegai che avevo offerto una collaborazione scientifica del mio dicastero al governo russo. A quei tempi ero all’Agricoltura con il sesto governo Andreotti. Ma c’ero già stato con il quinto governo Fanfani. Era a quel periodo che sicuramente si riferiva Gorbaciov. A una missione svolta nel febbraio del 1983».
Quale missione?
«Era stato Fanfani ad affidarmela. Nei miei confronti il presidente del Consiglio aveva riguardo ma mi trattava con fare paternalistico. Lui era il professore che aveva sempre da spiegare qualcosa all’alunno: “Giovanotto devi imparare”, mi diceva. E infatti lo chiamavo “professore”, con suo grande compiacimento. Una mattina alle 6 mi chiese di raggiungerlo a Palazzo Chigi, e appena arrivato mi diede delle prescrizioni».
In che senso?
«Mi spiegò esattamente cosa dovevo fare: “Esci dall’ingresso secondario del palazzo e sali su un taxi. Non prenderlo qui vicino, vai a piedi fino a piazza san Silvestro. Devi farti portare davanti a un bar in viale Mazzini. Entra e troverai l’ambasciatore russo”. “Professore, l’ambasciatore russo?”. E lui: “Vai, poi torna da me”. Al bar trovai l’ambasciatore Nikolai Lunkov, riconoscibile per gli occhialoni neri di marca sovietica che indossava. Fu un colloquio stringato».
Cosa le disse il diplomatico sovietico?
«“Ministro c’è bisogno del vostro aiuto. In Georgia e in Crimea abbiamo una grave emergenza sanitaria con un’elevata mortalità infantile. Ci serve una vostra fornitura per vie amichevoli di latte a lunga conservazione”. “Per vie amichevoli”, mi ripeté. Insomma doveva essere una consegna riservata. Erano gli anni in cui Parmalat aveva fatto fortuna con il latte a lunga conservazione, che aveva una durata maggiore rispetto al prodotto tradizionale. Proprio quello che serviva ai russi».
Prese impegni?
«Tornai da Fanfani e gli esposi la richiesta. “Professore, siamo in un momento delicato. Abbiamo appena deliberato l’installazione degli Euromissili contro l’Unione Sovietica e ci infiliamo in questa cosa?”. Commentò: “Ci costringono a mettere i missili e non sono in condizione di fronteggiare neppure un’epidemia infantile...”. Poi mi chiese: “E tu come ti muoveresti?”. Lungo il tragitto di ritorno ci avevo già pensato e risposi: “Usando la Croce Rossa”. Alcune settimane prima avevo fatto proprio con la Croce Rossa una spedizione di riso e semola in India, dove c’era la peste. Me lo aveva chiesto madre Teresa».
Madre Teresa di Calcutta?
«Sì. Una mattina ricevetti una telefonata. Era lei: “Ho bisogno di aiuto”. Mi mossi subito. E mentre ripensavo a quel colloquio brevissimo e toccante, Fanfani mi domandò: “Ma il latte ce l’hai?”. “Certo”. “Allora muoviti. È una cosa che non deve coinvolgere il governo. Prenditi le tue responsabilità”. “Ma devo comunicarlo al ministro della Difesa”. “No. Sei autorizzato a parlarne solo con il capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica”».
Possibile che Fanfani non sapesse cosa le avrebbe chiesto Lunkov?
«Certo che lo sapeva. Il suo tramite con l’ambasciatore russo era Ettore Bernabei, appena passato alla guida dell’Iri. Logisticamente l’operazione non fu difficile, perché era già tutto pronto all’Aima, l’Azienda di intervento sul mercato agricolo. Formalmente gestiva per conto della Comunità europea il ritiro dei prodotti eccedenti. Riservatamente aveva una funzione collegata al sistema della Difesa: doveva accantonare per standard prefissati dei quantitativi di derrate alimentari da utilizzare in casi di emergenza. C’era un piano segreto anche nel caso in cui la Germania fosse stata invasa».
Ma il suo non era il dicastero dell’Agricoltura?
L’incontro
Incontrai in un bar l’ambasciatore russo
Poi facemmo arrivare tutto con la Croce rossa attraverso l’Egitto
«Quando arrivai al ministero, seppi che la stanza accanto alla mia era occupata da un generale dei Carabinieri. E che il direttore generale del dipartimento forestale era dei Servizi. A lui mi rivolsi per l’operazione. A lui e al direttore generale dell’Aima, un galantuomo siciliano mio amico».
Insomma, l’Aima era una succursale dell’intelligence.
«L’Azienda era al centro degli attacchi da parte del Partito comunista italiano che ci accusava di dissipare risorse. Non sapevano quale uso ne facessimo. O meglio, nel Pci chi lo doveva sapere lo sapeva, perché li informavamo delle nostre missioni, soprattutto nell’Africa mediterranea. I comunisti togliattiani erano gente seria. Il resto era dibattito politico».
Come avvenne la spedizione?
«Con un Hercules che inviammo al Cairo sotto l’egida della Croce rossa. Lì il latte venne scaricato e lasciato sulla pista. Poi fu preso in consegna dai sovietici. Fine. Non ci fu nessun resoconto ufficiale della missione».
E ufficioso?
«Giorni dopo il direttore dell’Aima si presentò nel mio studio con le solite scartoffie burocratiche. Poi tolse dalla tasca un bigliettino e mi disse: “Tutto tranquillo”. Non andai neppure a riferire a Fanfani, che non tornò mai sull’argomento. Era lo stile democristiano: far finta di non sapere nulla mentre si sapeva tutto».
E i sovietici?
«Incontrai in alcune occasioni l’ambasciatore ma senza far cenno alla cosa».
Non avevate informato del carico gli alleati americani?
«Se seppero, seppero dopo. Il capo di Stato maggiore dell’Aeronautica avvisò del volo al Cairo della Croce rossa. Punto».
Insomma, da una parte stavate nell’alleanza occidentale e dall’altra aiutavate il nemico.
«Quando incontrai il capo di Stato maggiore, mi fu chiesto: “Dobbiamo proprio metterci nei guai?”. Risposi: “Generale, dobbiamo farlo e basta”. Sul piano politico-umanitario svolgemmo un’operazione di soccorso. D’altronde, come mi aveva spiegato Fanfani, “la Chiesa inviava aiuti a Lenin in favore del popolo russo mentre Lenin ammazzava i preti”. Ma sul piano politico-militare noi eravamo schierati con gli Stati Uniti. Avevamo appena deciso di installare i missili contro l’Unione Sovietica, dovendo gestire la mobilitazione dei comunisti, dei cattolici e persino le pressioni del Vaticano».
Il Vaticano?
«Non mi riferisco a papa Giovanni XXIII. Ma ai cardinali Agostino Casaroli e Achille Silvestrini, che in seguito avrebbero lavorato per dividere la Democrazia cristiana. Ogni giorno chiedevano a Fanfani che l’Italia ritardasse l’applicazione dell’intesa sui Pershing e i Cruise. Invece non perdemmo tempo, a dimostrazione che fummo sempre leali con gli Stati Uniti anche quando, sul finire della nostra storia democristiana, noi abbiamo dovuto dubitare della loro lealtà. Chi poteva sapere che sei anni dopo Gorbaciov...».
Ma perché proprio Gorbaciov?
«Perché nell’83 era lui il ministro dell’Agricoltura in Unione sovietica. Ed era stato lui a dire al suo governo di rivolgersi all’Italia per il latte».