Corriere della Sera, 14 luglio 2024
In morte di Bill Viola
Da anni era malato, una malattia crudele (una precocissima forma di morbo di Alzheimer) che gli aveva fatto perdere la capacità di comunicare con il mondo. Da anni parlava per lui il suo angelo custode, Kira Perov, moglie e compagna di avventura da una vita: «Io sono il suo archivio», amava dire lei. Con Bill Viola, scomparso nella notte di venerdì nella sua casa di Long Beach, in California a 73 anni (era nato a New York, più precisamente nel Queens, il 25 gennaio 1951), scompare un pioniere e un grande maestro della videoarte (al pari di Bruce Nauman e Nam June Paik), geniale contaminatore di arte e tecnologia, di classicità e modernità. Un artista che ha affidato un senso di bellezza apparentemente senza tempo e una spiritualità secolare al nuovo genere della video arte, diventando uno degli artisti più influenti e popolari del suo tempo. Il nostro tempo.
«La tecnologia è importantissima perché ha aperto la strada verso nuove forme d’arte, ma ormai da sola non basta più. Ai giovani, ai miei figli – aveva raccontato nell’ottobre del 2012 in occasione dell’inaugurazione della sua mostra Reflections a Villa Panza, a Varese— dico che bisogna imparare a usarla per fare del bene, prima di tutto a noi stessi. La televisione ci ha fatto diventare tutti più stupidi per questo dobbiamo tornare a studiare, leggere, andare a visitare i musei con i capolavori della classicità. Perché il futuro non è solo nelle mani delle nuove generazioni, è nelle mani di tutti, è un futuro condiviso».
Costantemente in bilico tra le origini italiane del padre e quelle inglesi della madre, Bill Viola (magro, ieratico, sempre vestito con la semplicità di un monaco) aveva studiato dal 1969 al 1973 nel dipartimento di studi sperimentali del College of Visual and Performing Arts della Syracuse University (New York), coltivando accanto all’interesse per i video – intesi come «mezzo espressivo» – quello per la musica, studiando con David Tudor e collaborando con il suo gruppo Composer Inside Electronics.
Dal 1974 al 1976 si stabilisce a Firenze, chiamato da Maria Gloria Bicocchi per lavorare in qualità di operatore video per Art/Tapes/22 (il primo centro di produzione video italiano), collaborando con artisti come Giulio Paolini, Mario Merz, Jannis Kounellis, Vito Acconci. Durante il successivo soggiorno in Giappone (1980-1981, per la Japan/Us Creative Arts Fellowship) Viola avrebbe ulteriormente approfondito lo studio delle tecnologie avanzate del video e i suoi interessi per le filosofie orientali. Ecco allora gli studi con Daien Tanaka, pittore monaco zen, e l’incontro con il Dalai Lama del quale disse: «Mi ha fatto capire la necessità di guardarsi ancora più in profondità». In Giappone Viola ricevette il Premium Imperiale 2011.
Comincia poi quel suo rapporto con i modelli del passato (Leonardo, Pontormo, Rembrandt, Michelangelo, Mantegna, Dürer, Paolo Uccello, Ghirlandaio) rivisitati da Bill Viola attraverso l’occhio della tecnologia, ma attribuendo loro una sorta di intoccabilità: Emergence (2002) che rielabora il tema di Cristo al Sepolcro partendo dall’affresco di Masolino da Panicale alla Collegiata di Empoli; lo straziante Nantes Triptych (1992) in cui recupera la forma della pala d’altare trecentesca intrecciandola con una vicenda privata (l’agonia della madre ripresa in diretta); The Sleepers (1992) con le sue figure dormienti proiettate su schermi televisivi in bianco e nero affondati in sette barili di latta pieni d’acqua. E ancora: Three Women (2008), The Innocents (2009), Passage into Night (2005), Eternal Return (2000), The Dark side of Dawn (2005). Un percorso spesso legato all’acqua (Ascension del 2000, The Raft del 2004, Martyris del 2014), un’acqua che per Viola «lava, purifica, ma anche distorce».
Un percorso che sarà scandito da mostre importanti e baciate sempre da un grande successo di pubblico. Da quella al Whitney Museum di New York (poi presentata a Los Angeles, New York, Amsterdam, Francoforte, San Francisco e Chicago, 1997-2000) all’antologica Rinascimento elettronico del 2017 di Firenze che riassumeva il percorso di un artista che, attraverso straordinarie esperienze di immersione tra spazio, immagine e suono aveva contaminato antico, contemporaneo e (in qualche modo) anche futuro. Fino alla grande mostra del febbraio-giugno 2023 al Palazzo Reale di Milano.
Quando gli artisti avevano cominciato appena a lavorare con i video, nei primi anni Settanta, Viola si era guadagnato rapidamente la reputazione di mago della tecnica, esperto nei nuovi metodi di registrazione e montaggio. Molti dei suoi primi lavori riflettevano la passione per gli effetti speciali, inclusi circuiti di feedback input-output per riempire uno schermo con distorsioni visive e installazioni di sorveglianza a circuito chiuso. Ma poi Viola aveva maturato una sensibilità aristocratica nei significati, riuscendo però a far sentire il visitatore parte viva dell’opera. Un’arte, quella inventata e fatta crescere da Viola, che non rifiutava mai il passato e che, anzi, lo utilizzava sempre per dare nuova vita al presente. «Le mie opere – aveva confessato – servono a trasformare la nostra percezione, per guardare non davanti, ma dentro di noi. La mia arte non è cinema, non è pittura. È un’espansione dei livelli di realtà».