Corriere della Sera, 14 luglio 2024
Piazza della Loggia (secnda puntata)
L a mattina del 28 maggio 1974, alle 10.12, un’esplosione interruppe il comizio durante la manifestazione antifascista che si stava svolgendo in piazza della Loggia, a Brescia. La bomba, sistemata dentro un cestino dei rifiuti sotto al porticato, provocò otto morti e oltre cento feriti tra le persone che avevano aderito all’appello dei sindacati e di tutti i partiti dell’arco costituzionale, per protestare contro gli attentati attribuiti all’estrema destra che nelle ultime settimane avevano colpito la città. Durante il primo processo il condannato all’ergastolo Ermanno Buzzi, che aveva fatto intendere di poter parlare al processo d’appello, fu ucciso in carcere da due killer neofascisti. Poi tante assoluzioni, fino a due condanne divenute definitive nel 2017. Per altri due imputati i processi sono tuttora in corso.
C elebrare un processo per strage politica davanti a un tribunale per i minorenni è un fatto insolito, ma non inedito. Dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il più grave episodio di terrorismo italiano, si occuparono fra il 2000 e il 2004 i «giudici dei ragazzini» abituati ad affidamenti o episodi di violenza molto meno pesanti, poiché uno degli imputati all’epoca dell’eccidio non era ancora diciottenne. Ne scaturì l’altalena tra assoluzione, condanna, annullamento, fino all’ultima dichiarazione di colpevolezza.
Adesso però, a Brescia, sta avvenendo qualcosa di ancora più anomalo: a mezzo secolo dall’esplosione di piazza della Loggia, è appena cominciato il dibattimento di primo grado a carico di un sospettato che al tempo non aveva compiuto 17 anni. A porte chiuse, com’è la regola nei tribunali dei minori e nei processi per stupro, sebbene qui si parli di eventi politici e storici raccontati in centinaia di libri e manuali.
Giudizi portati avanti a decenni di distanza dai crimini commessi, e in sedi così particolari, sono una peculiarità del Paese delle stragi. Spesso impunite, ma non quella di Brescia. Lì ci sono già due condanne all’ergastolo, definitive dal 2017, nei confronti di Carlo Maria Maggi, un medico divenuto leader del gruppo neofascista Ordine nuovo nel Triveneto, e Maurizio Tramonte, estremista nero ed ex informatore del Sid, il servizio segreto militare. Arrivate dopo molte assoluzioni e lo strangolamento in carcere di un imputato condannato in primo grado e in attesa dell’appello, un neofascista ucciso da due killer «neri».
Due colpevoli
Maggi era stato imputato pure per la strage di piazza Fontana del 12 dicembre ’69, ma se la cavò con un’assoluzione in appello confermata dalla Cassazione dopo la condanna in primo grado. Per piazza della Loggia invece la dichiarazione di non colpevolezza ottenuta in primo e secondo grado fu cancellata dalla Corte suprema, l’appello-bis si spostò a Milano perché a Brescia non c’erano altre Corti d’appello disponibili e lì arrivò l’ergastolo.
Quando la pena fu confermata dalla Cassazione Maggi aveva 82 anni, andò in detenzione domiciliare per motivi di salute e morì l’anno successivo. Tramonte ne aveva 65, fu arrestato in Portogallo e estradato sei mesi dopo, ha chiesto la revisione del processo ma gli è stata negata; dice che ci riproverà, e nel frattempo sta scontando la pena in carcere.
Per la giustizia italiana Maggi è colpevole di aver organizzato e diretto l’attentato alla manifestazione antifascista, Tramonte di aver partecipato alle riunioni preparatorie nelle quali s’era detto anche disponibile a sistemare l’ordigno nel cestino dei rifiuti della piazza. Ma non sarebbe stato lui a farlo. E se dopo cinquant’anni conosciamo soltanto i nomi di due partecipanti a questa ulteriore «trama nera» nell’Italia repubblicana, ora tocca ai giudici dei minori stabilire se a piazzare la bomba fu l’allora sedicenne Marco Toffaloni, insieme al presunto complice Roberto Zorzi, processato contemporaneamente dalla corte d’assise ordinaria; lui all’epoca aveva vent’anni e la maggiore età scattava a 21, ma la competenza dei «giudici dei ragazzini» si ferma sulla soglia dei 18.
Sono loro i presunti nuovi anelli della catena stragista finiti alla sbarra. In loro assenza. Toffaloni è residente in Svizzera, Paese di cui ha acquisito la cittadinanza dopo aver cambiato identità: ora si chiama Marco Franco Maria Muller; Zorzi invece vive negli Stati Uniti dal 1996. Dice di voler intervenire nel processo in videoconferenza dagli Usa, chissà se gli sarà concesso.
Per Toffaloni il tribunale dei minori potrebbe ordinare l’accompagnamento forzato in aula, poiché la legge prevede l’opportunità di un contatto diretto tra i giudici e un imputato così giovane: regola applicabile anche se ormai ha compiuto 67 anni. Ammesso che le autorità svizzere acconsentano.
Le coperture statali
Fra tutti questi paradossi, sugli intrecci nascosti dietro la bomba esplosa cinquant’anni fa restano le certezze acquisite nei processi precedenti e le ricostruzioni in attesa di conferme giudiziarie.
Le prime riguardano il ruolo dei due condannati e in particolare di Maggi. Il quale, dopo lo scioglimento di Ordine nuovo decretato dal ministro dell’Interno per tentata ricostituzione del partito fascista, si attivò per riorganizzare i camerati sotto la nuova sigla «Ordine nero», sostenendo la necessità di attentati dinamitardi. Al punto che un suo adepto lo sentì dire, un mese dopo la strage, che quello di Brescia «non doveva rimanere un fatto isolato». Consapevole di «poter contare, a livello locale e non solo, sulle simpatie e sulle coperture, se non addirittura sull’appoggio diretto, di appartenenti agli apparati dello Stato e a servizi di sicurezza, nazionali ed esteri».
Così hanno scritto i giudici, a sottolineare i contatti diretti e indiretti di ideologi e militanti neofascisti con esponenti dell’Ufficio affari riservati, del Sid e delle strutture statunitensi operanti in Italia (Cia e Nato), interessati a portare avanti la «strategia della tensione» inaugurata con le bombe del 1969. Addebitata a Maggi per il ruolo avuto nella «riorganizzazione delle frange più estreme delle forze eversive di destra, per bloccare con metodi violenti i fermenti progressisti in atto nella società civile e destabilizzare il sistema politico attraverso azioni terroristiche eclatanti». Arruolando ragazzini imberbi o poco più, secondo le ultime indagini.
Un film già visto
Le coperture e i depistaggi che caratterizzarono la strage milanese alla Banca nazionale dell’Agricoltura si sono replicati cinque anni dopo a Brescia: dalla distruzione delle prove all’inquinamento delle indagini. Tanto più che al Sid, preparativi e fatti successivi alla bomba furono seguiti quasi in diretta attraverso un informatore, senza che nulla venisse comunicato alla magistratura inquirente.
L’arco di tempo che passa tra piazza Fontana e piazza della Loggia è costellato di altre esplosioni (con o senza vittime) della stessa matrice nera, e la manifestazione del 28 maggio doveva essere la risposta agli attentati più recenti verificatisi in città. L’ultimo fallito perché l’attentatore, il neofascista Silvio Ferrari, saltò in aria insieme alla bomba che trasportava sulla sua Vespa, la notte del 19 maggio. Forse un «incidente sul lavoro», o forse una trappola ordita dai suoi stessi mandanti e «camerati» per eliminare un testimone scomodo dell’intreccio tra giovani neofascisti e apparati statali. A sostenerlo è stata, da ultimo, la fidanzata dell’epoca di Ferrari, divenuta uno dei testimoni principali a carico di Toffaloni, riconosciuto in fotografia come uno dei più «determinati» del gruppo bresciano. Anche se lui veniva da Verona, dove pure Silvio si recava spesso (a volte accompagnato dalla «ragazza) per incontrare civili e militari, italiani e stranieri.
Le bugie a Occorsio
Dell’ex minorenne aveva già parlato Gianpaolo Stimamiglio, l’amico di Giovanni Ventura (uno dei responsabili acclarati di piazza Fontana) che lo fece evadere durante il processo per la strage di Milano. Raccontando di un incontro avvenuto nel 1990 con altre persone appartenenti allo stesso giro, Stimamiglio ha rivelato che Toffaloni gli disse in dialetto veneto: «Anche a Brescia gh’ero mi». Lui gli chiese se alludesse alla strage e quello confermò: «Son sta mi». L’ex camerata cercò di approfondire: «Replicai che a quell’epoca era solo un ragazzo e lui, sempre con quel mezzo sorriso sarcastico, annuì, come a voler far intendere che, per quanto giovane, aveva le qualità necessarie».
Meno di un mese dopo la strage, il 21 giugno 1974, Toffaloni fu convocato dal pubblico ministero romano Vittorio Occorsio – il magistrato che indagava su Ordine nuovo e Ordine nero, assassinato il 10 luglio ’76 da Pierluigi Concutelli –, e negò di far parte di quella sigla neofascista. Bugie, secondo i nuovi inquirenti che l’hanno portato alla sbarra come presunto «autore materiale» della strage. Sulla base di una serie di indizi, simili a quelli contestati a Roberto Zorzi, solo omonimo del Delfo Zorzi oggi diventato giapponese, processato, condannato e infine assolto per piazza Fontana, e sempre assolto per piazza della Loggia.
Sembra un copione che si ripete, sebbene per Brescia manchi ancora l’ultima scena del film. La storia, però, è davvero la stessa: l’inizio e la fine della stagione delle bombe furono targati Ordine nuovo, con la copertura dei vertici dei Servizi segreti, italiani e non solo. Al di là delle responsabilità individuali, provate o meno, è andata così.