Corriere della Sera, 14 luglio 2024
I servizi mal funzionanti, la nostra lotta quotidiana
C’è un problema con il quale gli italiani combattono quotidianamente, il malfunzionamento dei servizi collettivi, siano essi pubblici o privati, specialmente quelli ordinati a rete, su tutto il territorio. Si tratta di strutture sanitarie, di servizi di comunicazione, di distribuzione di energia elettrica e di fornitura di acqua, di istituti di credito, di compagnie aeree, di burocrazie pubbliche. Si lamentano lunghe attese, mancato rispetto dei tempi, pesanti e inutili incombenze a carico degli utenti, disattenzione per i bisogni dei clienti.
Che cosa non funziona, perché non funziona, quali rimedi vanno adottati?
Per essere ammessi in una struttura sanitaria, sia essa pubblica, sia essa privata, occorre riempire ripetutamente moduli, attendere, fare file, perché le competenze degli operatori sanitari, a cominciare da infermieri e caposala, sono limitate all’aspetto sanitario, non comprendono l’organizzazione aziendale, la pianificazione, le tecniche di contatto con il pubblico.
Le banche richiedono adempimenti, molti imposti dall’antiriciclaggio, ma senza chiedersi come vigilare in maniera meno invasiva, mentre i signori del digitale, divenuti ormai pari agli dei dell’Olimpo, accelerano le procedure scaricando sempre gli adempimenti sui clienti, ai quali però si lesinano informazioni (o se ne danno troppe).
I gestori delle reti di comunicazione sulle reti stanno seduti come autentici monopolisti, senza preoccuparsi di coprire l’intero Paese, anzi lasciando persino la sua capitale con zone «scoperte», mentre quelli delle reti elettriche ed idriche non assicurano la continuità del servizio, come evidenziano i frequenti «black-out».
Uffici postali e compagnie aeree, alle prese con i grandi numeri, sono incapaci di differenziarsi dal pastore che spinge le sue pecore nell’ovile, e a trattare gli umani come clienti paganti.
Governo e amministrazioni pubbliche sfornano nuove norme e ne richiedono l’applicazione, ma le burocrazie si fermano, se non altro per studiarle, come è mostrato dalla recente legge sugli appalti, per cui – come scrive l’Anac – gli operatori si sono presi il tempo di studiarla, nel frattempo accelerando il ricorso alle precedenti norme, superate. Intanto, gli utenti si chiedono se non si potevano organizzare rapidi corsi per introdurre l’applicazione della nuova legge.
In tutti questi settori la digitalizzazione ha migliorato le cose per un verso, l’ha peggiorato per l’altro, perché i signori del digitale sono sordi alle esigenze dei poveri mortali, gli utenti, trattati come sudditi.
Insomma, noi italiani siamo un popolo di santi, poeti e navigatori, ma non di organizzatori o di persone ordinate. Facciamo riforme, ma non sappiamo applicarle sollecitamente. Siamo bravi a disegnare nuovi ordini, non a farne l’ordinaria manutenzione o gli aggiustamenti necessari. Siamo bravi nella manifattura, non nei servizi. Non sappiamo ascoltare gli utenti.
Il malfunzionamento di cui sto scrivendo è poi un mal comune perché riguarda il settore pubblico come quello gestito da privati, ambedue incapaci di affrontare gestioni complesse. Riguarda, sia pure in misura diversa, il Nord come il Sud.
L’ultimo paradosso è che il tema fatica a entrare nello spazio pubblico, nonostante che tutti soffrano di questo generale malfunzionamento dei servizi, e che questo sia una delle cause del distacco che si va creando tra società civile e classe dirigente, di cui vi sono tanti segni, dalla scarsa affluenza alle urne alla scomparsa dei partiti-associazioni.
Capisco che i rimedi non sono facili. Non basta ricorrere alla parola magica «riforma». Non basta lisciare il pelo alla tanto vituperata burocrazia. Bisogna affrontare mentalità, culture, usi, pratiche inveterate. Superare la cronica disattenzione per gli utenti, l’ignoranza delle più comuni regole organizzative, la scarsa capacità di programmazione e di orchestrazione. Diffondere capacità organizzativa e di pianificazione.