Corriere della Sera, 12 luglio 2024
la forza dei sistemi elettorali
I laburisti di Starmer con il 33,8% dei voti hanno conquistato la maggioranza assoluta di seggi a Westminster: 412 su 650. I lepenisti di Bardella, raggiungendo pressoché la stessa percentuale al primo turno, il 33,1%, sono arrivati solo terzi, con 143 seggi su 577 nell’Assemblea nazionale. Alzi la mano chi ha ancora il coraggio di sostenere che i sistemi elettorali sono solo tecnicalità da lasciare agli esperti. Il confronto offerto da questi due modi di trasformare i voti popolari in seggi, diversi seppur entrambi maggioritari, ci dice esattamente il contrario.
È anche vero, però, che i sistemi elettorali nelle democrazie mature non cadono dal pero come avviene da noi, che li cambiamo a ogni stagione politica come fossero abiti nell’armadio. Nascono piuttosto dalla storia nazionale, hanno un nesso profondo con la tradizione. La rivoluzione inglese, che fissò le prerogative del Parlamento, dopo la quale il sovrano non può neanche più mettere piede ai Comuni; e il trauma del proporzionale nella Quarta Repubblica in Francia, 21 governi in 12 anni, cui mise fine il generale De Gaulle con la sua Grande Riforma riprendendo il doppio turno, specialità francese dal tempo della Restaurazione.
Ciò non di meno, qualcosa la si può sempre imparare anche noi. Per esempio: il centrodestra, in cerca di un premier forte da eleggere direttamente, si è trovato davanti un esempio di come si possa eleggere invece indirettamente, in quanto cioè espressione della maggioranza parlamentare che gli elettori hanno formato votando collegio per collegio i propri rappresentanti, un premier più che forte, fortissimo. A Londra il Prime Minister, infatti, nomina i suoi ministri, li rimuove e sostituisce quando vuole, può sciogliere il Parlamento, non ha un capo dello Stato sopra di sé che possa rinviare le leggi alle Camere né una Corte Costituzionale che possa abrogarle (non c’è neanche una Costituzione scritta), e porta in Parlamento ogni anno una legge di bilancio che non è emendabile. Unico limite al potere del Prime Minister è la volontà della sua maggioranza parlamentare, cioè del suo partito: che può sostituirlo in corso di legislatura quando le cose vanno male (ma se ne cambia cinque in nove anni, come hanno fatto i Conservatori da Cameron a Sunak, poi perde malamente le elezioni).
In realtà nella pur breve tradizione politica della Seconda Repubblica qualcosa del sistema britannico era stato introdotto anche da noi. La legge elettorale che prendeva il nome da Sergio Mattarella prevedeva infatti l’elezione di tre quarti del Parlamento con il sistema del first past the post, chi arriva primo nel collegio si prende il seggio. E lasciava un 25% dei seggi agli eletti su base proporzionale, che garantiva l’esistenza dei partiti minori. Senza alcuna riforma costituzionale, quella legge ci mise da sola sulla strada del bipolarismo, che le alterne vittorie elettorali di Berlusconi e di Prodi trasformarono ben presto in una democrazia dell’alternanza. Con i suoi difetti, certo, ma capace di cambiare nel profondo la cultura politica del Paese, anche grazie all’indicazione sulla scheda elettorale del nome del candidato premier: di fatto una elezione indiretta. E siamo anche stati a un passo dall’adottare pienamente il «sistema Westminster», se solo fosse passato il referendum per l’abolizione della quota proporzionale nel 1999, che mancò il quorum per un fatidico 0,4% di affluenza. Fu il centrodestra, con la sciagurata decisione di scambiare il Mattarellum con il Porcellum, alla viglia delle elezioni del 2006 che sapeva di perdere, ad interrompere quel cammino, introducendo le liste bloccate e ponendo le basi per le convulsioni politiche degli anni tra il 2011 e il 2022, fatti di parlamenti senza maggioranze, di grandi coalizioni e di governi tecnici.
Verrebbe perciò da dire a proposito della riforma Casellati: non conveniva forse partire da una buona legge elettorale per rafforzare l’esecutivo, invece che dalla previsione di un’elezione diretta che non si sa ancora come avverrà? E poi magari fare quei pochi, mirati interventi sulla Costituzione per dare più poteri al premier? Il centrodestra deve infatti capire che un sistema elettorale democratico può certo favorire la formazione di una maggioranza assoluta in Parlamento, ma non può garantirla con certezza neanche a un premier eletto direttamente; e infatti perfino nei modelli presidenziali non è affatto detto che l’eletto dal popolo goda anche di una maggioranza parlamentare (oggi non ce l’ha né Macron, né Biden alla Camera dei Rappresentanti).
Ma c’è un altro insegnamento per Giorgia Meloni che viene dalla Francia: se il voto diventa un referendum la destra rischia grosso, perché la coalizione di tutti gli avversari può vincere agitando l’«allarme democratico» e alzando il «cordone sanitario». È il destino che insegue ormai da decenni i Le Pen, ma almeno loro combattevano per conquistare o l’Eliseo o Palazzo Matignon. In Italia la premier rischia di far nascere la stessa Santa Alleanza contro di lei nel referendum sulla riforma costituzionale, se non è capace di modificarla per condividerla con almeno un pezzo dell’opposizione. Ne vale la pena?
Qualcosa da apprendere nel voto inglese e francese c’è ovviamente anche per la sinistra, e soprattutto per quella sorta di Tribuno Collettivo che agisce sui social e nei media, e che spinge i partiti di opposizione a non accettare nessuna formula politica che rafforzi il potere dell’esecutivo. Questa sindrome ancestrale di paura dell’«uomo forte», o della «donna forte», sottovaluta il fatto che oggi in Occidente per gli elettori democrazia è soprattutto capacità di governare e rapidità di decisioni, e rende la sinistra di Schlein e Conte geneticamente conservatrice sul piano delle riforme del sistema politico (al punto da rinnegare, nel caso del Pd, anche il suo passato ben altrimenti riformista).
Eppure i capi dell’opposizione dovrebbero riflettere sul fatto che sono stati gli ampi poteri di un Presidente eletto direttamente come Macron, libero di sciogliere il Parlamento quando e come vuole, anche solo per motivi di convenienza politica, a permettere la nascita di un fronte repubblicano capace di bloccare l’ascesa di Le Pen. E che i poteri del laburista appena eletto a Downing Street fanno impallidire quelli che la riforma Meloni vorrebbe attribuire al premier in Italia, mentre da noi vengono presentati come l’anticamera di un nuovo fascismo.