Corriere della Sera, 11 luglio 2024
Viktor Orban, il sabotatore
Forse c’entra anche un nodo sbagliato della cravatta. Nel 1987, il ventiquattrenne Viktor Orbán si immatricolò all’Università Lorand Eotvos, una delle più prestigiose di Budapest. Facoltà di Legge. Il giovane arrivava da Székesfehérvàr, cittadina dell’Ungheria profonda, rurale, a metà strada tra la capitale e il Lago Balaton. Un giorno stava assistendo a una conferenza nell’Aula magna, quando uno studente della «Budapest bene» gli si avvicinò e, senza dire una parola, gli sistemò la cravatta.
Orbán la prese malissimo e ancora trentacinque anni dopo ha raccontato questo episodio al giornalista Alberto Simoni che lo ha riversato nel suo libro Ribelli d’Europa (Paesi Edizioni, 2022). Per Viktor quel gesto rappresentava l’ostentata arroganza dell’élite, il suo ingiustificato senso di superiorità. Allora il contrasto era tra il ragazzo di campagna e il rampollo di città. Poi Viktor è stato protagonista della ribellione degli «under 35», raccolti in Fidesz, l’Alleanza dei giovani democratici, contro la vecchia nomenklatura del regime comunista. Infine quel risentimento si è trasformato in una «dottrina», in una visione del mondo a sua volta aggressiva, presuntuosa, manichea, spregiudicata. In realtà, dopo aver studiato anche a Oxford, uno dei templi delle élite internazionali, Orbán si è dapprima intruppato con i democratici ed europeisti per poi virare verso la riscoperta della Nazione, della «Grande Ungheria», fino a teorizzare e costruire quel modello di «democrazia illiberale» che ormai da anni fa imbestialire le istituzioni di Bruxelles, gran parte dei governi europei e la Casa Bianca di Joe Biden, ma che piace a Vladimir Putin, Xi Jinping e, soprattutto, alla maggioranza degli ungheresi.
Le sue intuizioni e il suo innegabile talento gli hanno consentito una scalata fulminea. Nel 1988 è tra i fondatori di Fidesz. Nel 1990 viene eletto deputato nel primo Parlamento post comunista. Nel ‘93 è leader del suo partito. Cinque anni dopo diventa primo ministro. Dura fino al 2002. Poi torna al vertice del governo nel 2010, dove si trova ancora oggi, dopo aver vinto quattro elezioni di seguito.
Gli altri leader europei pensavano di poter arginare le iniziative di Orbán, magari concedendo più finanziamenti alla fragile economia ungherese. Una convinzione, ora lo sappiamo, sbagliata. Nel suo primo mandato, Viktor aveva sviluppato un piano di liberalizzazioni. Ma la crisi del 2008 colpì duramente il Paese, dissestando i conti pubblici. Orbán fu il più lesto a sintonizzarsi sulle frustrazioni delle fasce più deboli e del ceto medio stritolato. Uno scenario simile a quello della Grecia. I cittadini ellenici reagirono affidandosi all’epopea della sinistra radicale. Gli ungheresi, invece, richiamarono in massa Orbán. Ed ecco la svolta, Viktor demolisce una a una le strutture portanti della democrazia «globalizzata»: l’indipendenza dell’ordine giudiziario, il pluralismo dell’informazione, l’autonomia della burocrazia statale. Asseconda, e anzi fomenta, le paure, le insicurezze, i pregiudizi, sostenendo che bisogna frenare la decadenza sociale prodotta dalle idee «liberal», intese nel senso anglosassone di «progressiste».
E allora piovono leggi restrittive dei diritti civili per gli omosessuali; i confini vengono blindati, perché «il miglior migrante è quello che non arriva».
Sul proscenio internazionale, il premier si presenta come uno degli ultimi statisti, il difensore della civiltà cristiana, della tradizione, della famiglia. In realtà si guadagna rapidamente il titolo di mina vagante, di sabotatore sistematico all’interno dell’Unione europea. Per mesi ha tenuto in stallo il «Next Generation Eu», il grande piano di rilancio post-pandemia e, giusto per citare il caso più clamoroso, sta ancora bloccando il via libera all’«European Peace Facility», cioè il pacchetto Ue di aiuti militari all’Ucraina.
Dal primo luglio ha assunto la presidenza di turno dell’Unione europea. È un meccanismo che esiste fin dal 1957, quando nacque la Comunità europea. È un’idea di impronta federale: tutti gli Stati, anche i più piccoli, devono avere la stessa possibilità di coordinare i lavori. Uno strumento di inclusione che Orbán sta usando per imporre la sua visione, escludendo gli altri. Così, senza avvisare nessuno, si è precipitato prima a Kiev e poi a Mosca per incontrare un esterrefatto Volodymyr Zelensky e un compiaciuto Putin (sanzionato dalla Ue e inseguito da un mandato di cattura internazionale). Poi è andato a Pechino, da Xi Jinping, mescolando i dossier europei agli affari ungheresi. Ieri gli ambasciatori di 25 Paesi membri, tutti tranne la Slovacchia, hanno sollecitato il premier magiaro a rimettersi in riga. Avrebbero potuto avviare la procedura per togliergli la presidenza di turno. Non lo hanno fatto. Il sabotatore seriale resta in azione.