Corriere della Sera, 11 luglio 2024
Biografia di Ezra Pound
Se il poeta è un eterno fanciullo, Mary de Rachewiltz, nata il 9 luglio 1925, è una bambina di 99 anni. Figlia della violinista Olga Rudge e di Ezra Pound, sposato con la pittrice Dorothy Shakespear, all’età di 14 anni inizia a tradurre in italiano Cantos del padre, con cui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita nel castello di Brunnenburg, in Tirolo, assieme al marito Boris de Rachewiltz e i loro figli. È qui che andiamo a trovarla, accompagnati da Alessandro Rivali, autore di un prezioso libro intervista fatto con lei del 2018 (Ho cercato di scrivere Paradiso, Mondadori) e direttore di Ares, che ha una collana dedicata a Pound. Autore feticcio, per altro, di una destra italiana che potrebbe fare di più per valorizzarlo adeguatamente. La donna usa un bastone per muoversi e per dirigere l’orchestra dei ricordi quando indica i numerosi oggetti del padre in mostra nel castello. Cartigli e libri rari, fotografie, macchine da scrivere, autografi, violini, mobili in legno fatti da lui, indumenti testimoniali, come la giubba di quando fu ingabbiato dalle parti di Pisa, e oggetti stravaganti, come una dentiera di squalo regalatagli da Hemingway e maschere folkloristiche con cui Mary scherza facendoci le linguacce, mentre si annoda i capelli con uno scialle e sgrana gli occhi di un azzurro alpino, come quelli del padre.
Lei lo chiamava Pound?
«No, babbo. A volte, Pound».
Il primo ricordo di lui?
«Il primo non so, ho quasi cento anni! Ricordo un viaggio in tram, a Bolzano, io e lui, in carrozza. E poi la Liguria, anche se non era facile stare assieme. Mio padre viveva a Rapallo con sua moglie Dorothy, io e mia madre a Sant’Ambrogio... Babbo era conteso da tre donne cocciute, che si detestavano: la moglie, mia madre e mia nonna, che viveva su un’altra collina. Da Rapallo a noi c’era una salita infinita, io gli andavo incontro per l’ultimo tratto, e lui arrivava sempre con il fiatone. Poi si buttava disteso, esausto, gli piaceva stare disteso. Ma prima mi diceva di fargli tre domande intelligenti, diceva che dopo aver fatto tutta quella salita dovevo fargli tre domande intelligenti».
Ricorda una di quelle domande?
«No, non so neanche se erano intelligenti. Però mi dava spesso delle castagne arrostite, al posto dei cioccolatini Moriondo, che a lui piacevano tanto, ma era tempo di guerra, non c’erano soldi e il cibo era razionato con la tessera».
Com’era la vita a casa vostra?
«La casa era modesta, con un pozzo, senza acqua corrente, né elettricità, usavamo le candele... Lui veniva per stare con mia madre, ascoltarla suonare, e badare alla mia educazione, lì ho iniziato a tradurre le poesie di mio padre».
Se ora lo rivedesse, cosa gli chiederebbe?
«Vorrei chiedergli perché non ha osato divorziare da Dorothy. La sua famiglia era tradizionale, i nonni Homer e Isabel non sono arrivati con la prima nave, ma con la seconda in America».
Perché secondo lei non ha divorziato?
«Forse non credeva nel matrimonio».
A Venezia c’era il nido d’amore tra suo padre e sua madre. Ricordi?
«Le partite a tennis, mio padre amava giocare a tennis. Con me si toglieva una scarpa e la metteva in un certo punto e mi diceva “hit it”, colpisci».
E lei la colpiva?
«Probabilmente no».
Era un bravo giocatore?
«Non so, mia madre diceva che tirava forte. Lei smise di giocare perché da violinista non poteva farsi male al polso».
Altre cose che piacevano a suo padre?
«Il gelato, a Venezia andava sempre a prenderlo dopo il ponte dell’Accademia, a Santo Stefano. A lui piaceva andare lì perché diceva che il gelato era migliore e costava meno che altrove, ad esempio piazza San Marco, dove la gente però andava solo per farsi vedere. Lui non voleva farsi vedere, lui voleva un gelato».
A Rapallo fu arrestato dai partigiani, poi preso dai militari americani, per il suo sostegno al fascismo. Lo misero in una gabbia a Pisa e poi in un ospedale psichiatrico negli Stati Uniti per 12 anni.
«Fu un periodo drammatico. Mio padre fu dichiarato infermo e il soggetto giuridico divenne sua moglie».
Dal processo per tradimento si difese restando in silenzio. Una strategia? Una protesta?
«Dentro di sé era tranquillo».
Lei, ventenne, lo andò a visitare al Saint Elizabeth. Cosa ricorda?
«Le scarpe aperte, senza lacci, non capivo perché. Poi ho scoperto che lo si fa per evitare che uno possa farsi del male. Non ci avevo mai pensato prima».
Per tirarlo fuori si mobilitarono grandi scrittori, tra cui Eliot, che lei ha incontrato.
«In Inghilterra, aveva preparato una scatola di cioccolatini perché pensava che arrivavo con i bambini, e invece io scioccamente andai da sola. Fu gentile, e poi successe una cosa buffa. Stavo andando via, qualcuno infilò una busta sotto la porta. E io non sapevo che Eliot viveva insieme a questo suo amico invalido, per accudirlo; evidentemente voleva comunicare, fatto sta che sotto la porta, mentre andavo via, trovo infilata una busta e ricordo Eliot che mi chiede se era mia e io “come è mia, no!” Fu un momento imbarazzante...».
Anche Hemingway si adoperò per suo padre. Qui c’è appeso l’assegno che lo scrittore mandò a suo padre, assieme alla medaglia del Nobel che, diceva, meritava lui più di tutti.
«Non l’ho vista la medaglia, di certo l’assegno non l’ha mai incassato, ha provato anche a mandarlo indietro. Assurdo, perché ci sono sempre mancati i soldi, a un certo punto non potevano più pagarmi il collegio, non potevamo neanche prenderci un cappuccino...».
Con quei soldi cosa avrebbe voluto fare?
«Beh, aggiustare il tetto, perché qui sempre pioveva da tutte le parti, e mettere dei vetri alle finestre, perché il Castello era una rovina».
E cappuccini e cioccolatini Moriondo?
«Magari! Comunque il primo regalo di mio padre per me furono dei soldi».
In lire o dollari?
«Mi diede un biglietto da mille lire e mi chiese cosa ne volessi fare. E io ho detto voglio venire a Roma con te, quel biglietto da mille lire ha cambiato la mia esistenza, perché a Roma ho conosciuto il mio futuro marito, Boris».
Di Roma che ricordi ha?
«L’arrivo in stazione con tre ore di ritardo. Immaginai che mio padre fosse tornato al suo albergo e andai dall’amica di mia madre che mi ospitava. Poi squilla il telefono, è mio padre che aveva aspettato fino a sera, io non potevo immaginarlo, pensavo che dovessi cavarmela da sola. “Oca!” mi urlò al telefono».
Ho letto che anche negli ultimi anni della sua vita suo padre restava spesso in silenzio. Era un silenzio diverso da quello con cui si è difeso?
«La voce di dio».
Voleva sentire la voce di dio?
«Dico che il silenzio è la voce di dio».
Allora c’è poco dio oggi, non c’è silenzio.
«Ah sì, stiamo tutti chiacchierando a vanvera. E questo mio padre l’aveva capito molto bene».
Qual è la più grande eredità di suo padre?
«La sua voce. Aveva una voce potente, dentro. E poi la rinuncia alla vanità, lui ci invita a rinunciare alla vanità. Oggi dovremmo tutti rinunciare alla vanità».
Penso al celebre Cantos «Quello che veramente ami rimane». Possiamo leggerlo assieme?
«Non ho bisogno di leggerlo. “What thou lovest well is thy true heritage / The ant’s a centaur in his dragon world. / Pull down thy vanity, it is not man / Made courage, or made order, or made grace, / Pull down thy vanity, I say pull down».
Tradotto in italiano: «Quello che veramente ami è la tua vera eredità / La formica è un centauro nel suo mondo di draghi. / Strappa da te la vanità, non fu l’uomo / A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia, / Strappa da te la vanità, ti dico strappala».
Quello che non si può tradurre è il vento che ha preso a soffiare dentro gli infissi rustici del castello, simulando l’ululato dei lupi, mentre Mary recitava a memoria i versi del padre e batteva a ritmo i piedi sul pavimento di legno.
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