La Stampa, 9 luglio 2024
Intervista a Mariska Hargitay
«Non siete sole. Parlate, denunciate. Siate coraggiose. Non lasciate che l’oscurità e il silenzio abbiano il sopravvento. È su questo che contano gli abusatori». È un proclama e un invito a resistere e sperare quello pronunciato da Mariska Hargitay dal palco del Premio Flaiano a Pescara. «E si riassume in una parola sola. “Insieme!"». Premiata per la serie Law & Order Unità Crimi Speciali (in Italia su Sky e su Prime) di cui è protagonista ininterrottamente dal 1999, la figlia di Jayne Mansfield e di «Mr. Universo» Mickey Hargitay, dice di dovere alla serie non solo la «possibilità di esprimere i miei sogni» ma ancora di più «di essere di ispirazione alle persone. Il suo personaggio, la detective Olivia Benson, infatti, da 25 anni testardamente combatte abusi sessuali e domestici, di genere e sui minori: mostra che il criminale si può perseguire e che per le vittime c’è salvezza, che vivere «dopo» è possibile. È una battaglia in cui si impegna anche fuori dal set, in prima fila anche con una propria fondazione dedicata ad aiutare le vittime di stupro.
Ricevendo il Premio Flaiano ha letto una specie di «pentalogo» contro gli abusi: perché?
«Per battere la cultura patriarcale va sfruttata ogni occasione. È indispensabile portare alla luce ovunque, anche in Italia, la gravità della situazione, mostrare cosa significa sopravvivere a questi crimini, cosa fare per andare avanti e superare quella cultura così pervasiva».
Ce lo può riassumere ?
«1. Credete alle vittime: sempre. 2. Parlate con chiunque sia disposto ad ascoltare: è su silenzio e isolamento che contano gli abusatori. 3. Fate tutti un esame di coscienza: quanto sono radicati anche in voi i pregiudizi e gli stereotipi che vogliono le vittime “colpevoli”? 4. Sostenete le associazioni che combattono abusi e violenze con il vostro denaro o come volontari: non limitatevi a “essere d’accordo”. 5. Non smettete mai di credere che un cambiamento è possibile».
Avrebbe mai immaginato un successo così duraturo per la serie? 25 anni per una serie tv sono un’enormità. A cosa ascrive la sua longevità?
«26, in realtà: il 18 luglio iniziano le riprese della nuova stagione, nuovamente di 24 episodi dopo questa, più breve per via degli scioperi dell’anno scorso. Comunque, no: la realtà ha superato ogni mia aspettativa. La serie, nata nel 1999, voleva fin dall’inizio denunciare la condizione delle vittime di abusi (doppiamente vittime) e sostenerle con empatia. I reati di cui trattiamo – purtroppo – non accennano a diminuire, così temo che andremo avanti indefinitamente. C’è ancora molto da fare, molte storie femminili da raccontare, molte donne cui dare voce. Non siamo solo una serie, ma una comunità. Purtroppo parliamo di crimini diffusi a ogni latitudine, Italia compresa. Noi diciamo che c’è speranza, che è una realtà che si può contrastare, che un cambiamento (a partire dall’educazione dei bambini) è possibile. E soprattutto che c’è chi le ascolta e combatte al fianco delle donne. Che le donne non sono sole. Nulla è peggio della solitudine e del silenzio per una donna abusata e niente è meglio per il suo abusatore, che così si sente intoccabile»
È una cultura inestirpabile?
«Si tratti di violenza sessuale, molestie, o maltrattamenti domestici, hanno tutti a che fare con il controllo e con il potere che gli uomini vogliono mantenere sulle donne. Se ne ha una percezione quantitativamente inferiore a quanto accada nella realtà e questo induce a minimizzare. Ma è solo perché – in Italia, come a New York – sono reati che non si denunciano. Il problema è pervasivo: legato alla colpevolizzazione della vittima, al fatto che non le si creda. Che si continui a svilire il principio del consenso. Che alle donne si attribuiscano “colpe” in relazione ai loro comportamenti, si dica che “se la sono andata a cercare”. E non si dica invece che la normalità dovrebbe essere per le donne non dover temere mai nessun il lupo».
Oltre all’emergenza stupri, in Italia c’è anche quella femminicidi.
«Sono aspetti della stessa concezione patriarcale della donna. Oltre al fatto che, ancora una volta, quando la donna denuncia non viene creduta, si sottovalutano e sminuiscono le sue paure. E invece è proprio quando denuncia ed è pronta a lasciare il maschio violento che una donna è più esposta: è il momento più pericoloso della sua vita»
In tutti questi anni in cosa, lei e Olivia, vi siete reciprocamente influenzate?
«Abbiamo imparato e ci siamo cambiate a vicenda. Olivia mi ha permesso di poter essere di ispirazione alle persone. Di Olivia amo il profondo senso di giustizia. E ho imparato come lei a esprimere autorità e controllo. A lei ho provato a trasmettere la mia passione e la mia vulnerabilità. Così alla fine siamo una bellissima combinazione di vulnerabilità e forza: siamo determinate e non lasciamo che nulla si frapponga tra noi e i nostri obiettivi. Il patriarcato non ci spaventa (ma gli uomini io continuo ad amarli)».
Lei è figlia d’arte: che eredità le hanno lasciato suo padre e sua madre?
«Seppure morta che ero molto piccola, mia madre mi ha lasciato molto: era una bambina in un piccolo centro vicino a Detroit ed è diventata un’icona di Hollywood con la sola forza della volontà. Mio padre mi ha sempre sostenuta, dato fiducia in me stessa, insegnato a non mollare e a credere nei miei sogni. “Sbatti i tacchi e non arrenderti”, mi diceva sempre. E ha fatto di me una maratoneta resiliente». —