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 2024  luglio 09 Martedì calendario

Intervista a Willem Dafoe

Willem Dafoe, com’è la sua relazione con l’Italia? Quando è venuto da noi per la prima volta?
«Nel 1980, da turista. Anni dopo Mario Martone e Tomas Arana portarono a Milano il gruppo teatrale con cui lavoravo al tempo, il Wooster Group. Ma la cosa più importante è che nel 2003 stavo girando a Roma, ed è lì che è iniziata la mia storia d’amore con l’Italia. A Roma ho incontrato mia moglie. E ho cominciato a viverci. All’inizio ci stavo poco. Ma ora, anche se viaggio molto per lavoro, passo più tempo a Roma che a New York».
Anche sua moglie, Giada Colagrande, è un’artista. Come vi siete conosciuti?
«Mi avevano parlato di un suo piccolo film, fatto in casa, con pochissimi soldi, che però era andato alla Mostra del Cinema di Venezia. Si intitola “Aprimi il cuore”. Lei è una regista autodidatta, viene dal mondo dell’arte; ma se ne parlava. L’ho visto e l’ho trovato interessante. Mi chiesero se volessi incontrare l’autrice. Prima siamo diventati amici. Poi più che amici».
Roma e New York sono molto diverse.
«Sì, ma entrambe mi piacciono enormemente, e mi sembrano complementari».
Perché?
«Perché c’è un’energia diversa. L’ambizione si manifesta in modo differente. Come americano imparo molto in Italia, compreso il modo in cui si lavora e si considera il lavoro».
Cosa intende per diversa ambizione?
«A New York l’ambizione è manifesta. È una città votata agli affari. In Italia le tradizioni sono molto forti. Sono un arricchimento; ma sono anche un tormento. A New York le tradizioni culturali sono molto meno profonde».
Lei ha detto una frase che mi ha colpito: «Gli americani sono persone generose, ma lavorano tantissimo, c’è un sistema di assistenza crudele, devono lottare duramente nella vita, non viaggiano e sono convinti di essere nel migliore posto del mondo».
«Non ricordo quando l’ho detto, le cose cambiano... ma sì, è vero. Perché è il seme del capitalismo».
Lei è cresciuto nel Wisconsin. Che per noi è lo Stato di Milwaukee, di Happy Days, dei «Wonderful Fifties», i meravigliosi anni 50...
«Non così meravigliosi. E non è il modo in cui sono cresciuto».
Com’è cresciuto? Lei è il settimo di otto fratelli.
«Tendo a non giudicare quel che ci capita; è la mia vita, mi è piaciuta. Mi è piaciuto crescere in una famiglia numerosa. E durante tutta la mia vita ho tentato di ricostruire questa situazione, con famiglie creative. In un gruppo si impara a condividere e ad aiutarsi. Le famiglie con un figlio unico sono molto diverse da quelle numerose, se non altro per come i figli sentono il loro posto nel mondo. Ci si può trovare a dover lottare, perché si deve trovare il proprio posto. Ma si impara anche a collaborare. È un buon insegnamento per la creatività».
Perché dice che gli anni 50 in America non erano così favolosi?
«Non li conosco così bene: sono del ’55. L’idea romantica, la nostalgia di quegli anni ci lasciano pensare che fossero tempi facili: l’America usciva dalla guerra, c’era il boom economico. Ma le cose non si stavano mettendo nel modo giusto. Pensi alla questione dei diritti civili. E dei diritti delle donne. Erano gli anni in cui le ragazze in macchina dovevano stare sempre sedute dietro».
Quando Kennedy fu assassinato lei aveva otto anni. Se lo ricorda? Dov’era?
«Ricordo perfettamente quel giorno. Ero nel cortile di scuola. Me lo dissero. Tutti i bambini cominciarono a mettere in scena l’assassinio. Ne fui sorpreso allora, e lo sono ancora oggi».
Qual è il suo primo ricordo?
«Casa nostra era lontana dal centro. Nel quartiere si costruivano nuove case. Quando ero piccino, mi piaceva entrare in quelle case in costruzione, quando gli operai se n’erano andati, e guardarmi intorno. Probabilmente era la mia prima performance, il mio primo set».
Vivere le vite degli altri.
«Oppure vivere nelle case degli altri! Non saprei... Non direi “gli altri”: siamo tutti connessi».
Lei ha iniziato con il teatro.
«Sì. A lungo ho lavorato in teatro. Era la mia identità. E ci lavoro ancora. Essere nominato direttore della sezione Teatro della Biennale di Venezia per me è un vero e proprio ritorno al teatro».
Qual è il suo progetto per la Biennale?
«Concentrarmi sull’essenza del teatro. Sono un attore; guardo agli attori, al corpo dell’attore. Il cuore pulsante del teatro è il corpo: è questo a rendere unico il teatro. E il fatto che si recita in tempo reale, davanti a un pubblico. Immagino un teatro gremito di pubblico, persone davanti agli attori, e sento tutti quei cuori pulsanti. Ed è particolarmente importante oggi».
Perché?
«Perché con le nuove tecnologie le persone sono sempre più isolate. Ritrovarsi insieme è fondamentale, a maggior ragione per questi eventi rituali. Voglio risvegliare la curiosità del pubblico. La curiosità, l’interrogarsi sono le chiavi per vivere meglio».
In effetti nel suo lavoro, anche teatrale, è molto importante il corpo, il sesso; penso anche al film di Lars von Trier, Nymphomaniac. Forse lavorare sul corpo è più facile a teatro, e sul sesso al cinema?
«A teatro ci sono più opportunità, si controlla il ritmo, tutto si svolge in tempo reale, e si è presenti. Nel cinema si creano cose, si catturano momenti che poi vengono riordinati, sottoposti a un trattamento. A teatro si congiura: ogni volta, anche se si recita lo stesso copione, non è mai la stessa cosa. C’è la temporalità. Che è la sua bellezza».
Com’è nata la sua amicizia con Franco Battiato?
«Molti anni fa. Me lo presentò mia moglie. Eravamo legati, mi era molto caro. Era una persona particolarmente gentile e generosa, e mi sosteneva: ogni volta che avevo uno spettacolo teatrale, veniva alla prima. Veniva e ripartiva. Ho imparato l’italiano con le sue canzoni».
L’italiano di Battiato è molto particolare.
«Forse iniziare dalle sue canzoni non è il modo migliore di imparare l’italiano...».
Però nell’ultimo film di Saverio Costanzo lo parla.
«Faccio del mio meglio. Devo sempre lavorarci. Studio un poco ogni giorno».
Il film che la rivelò fu Platoon. Come lo ricorda?
«Fu un’esperienza straordinaria. Oliver Stone stava esorcizzando i suoi demoni, usava i dettagli del suo vissuto. Prese un gruppo di attori. Avevo fatto pochi film. E così anche gli altri attori. Era un esperimento. Eravamo nella giungla filippina, e alcuni veterani del Vietnam ci insegnarono a fare quel che fanno i soldati. Questo per me è essenziale, al cinema come a teatro: se impari a fare qualcosa, questo entra nella tua identità, in quello che sai, nel modo in cui pensi, e ti apre la porta per diventare un’altra persona. Se poi la situazione è molto drammatica, e in Platoon lo era, può diventare qualcosa di assai coinvolgente. Ti cambia. E devi cercare di portare il pubblico dentro la tua esperienza. Non si sottolinea nulla, non si dice nulla; si fa succedere qualcosa a noi stessi. La bellezza del teatro è che non si basa sulla letteratura, sulla storia: è più poetico, diventa un incontro di persone».
Qualcosa l’ha cambiata anche durante le riprese di Mississippi Burning?
«Da ogni film in cui non ho avuto un ruolo importante sono uscito cambiato. Mississippi Burning l’abbiamo girato sul luogo dei fatti. Nella troupe c’erano familiari degli attivisti per i diritti civili che erano stati uccisi; e c’erano i parenti di chi li aveva uccisi».
Com’è stato lavorare con Madonna? Avete girato anche scene di sesso.
«Fu divertente. Facemmo un film molto particolare, Body of Evidence. Inizia come una pellicola vecchia maniera, non come un film erotico. Non ho mai pensato che fosse questa la sua forza. Lei era quasi all’apice della sua popolarità. Il film fu apprezzato; ma io per lo più sono stato preso in giro».
E con Harrison Ford?
«Ah, con lui ce la siamo spassata. Mi è piaciuto davvero tanto. È un personaggio notevole».
Nell’Ultima tentazione di Cristo lei è Gesù; ma un Gesù molto umano. Come ci si prepara al più impegnativo dei ruoli?
«Non stavo recitando quel Gesù, ma un Gesù. Quando Martin Scorsese me lo propose, rimasi sorpreso. Ma dopo aver letto la sceneggiatura, ho capito. Una delle prime istruzioni che mi diede fu vedere Il vangelo secondo Matteo di Pasolini, perché non voleva un film spettacolare, ma elementare, semplice. Gli interessava l’elemento umano. Il Gesù che dovevo interpretare era un uomo su cui gli eventi avevano lavorato, era un uomo su cui si agiva, uno che costruiva croci per i romani, fino a quando decide di assumersi il ruolo che gli era stato assegnato. Naturalmente ho letto la Bibbia, e altro. Però non dovevo prepararmi raccogliendo informazioni, ma togliendomi di dosso qualsiasi aspettativa».
Non era un film a grande budget.
«Tutt’altro, c’erano pochissimi soldi. Avevano già cercato di farlo, ma la produzione era stata bloccata. Non avevamo neppure i carrelli, solo attrezzature di base. La troupe era composta soprattutto da italiani, e fu fantastico».
L’ha poi visto il Vangelo secondo Matteo?
«Sì. Lo vidi prima di girare, e l’ho rivisto più e più volte dopo. Mi sono immerso nei suoi film per recitare il Pasolini di Abel Ferrara».
Pasolini l’ha anche letto?
«Certo. Cominciai dalle poesie che mi diede mia moglie: difficili, per fortuna c’era il testo inglese a fronte. Gli “Scritti corsari”, gli articoli per il Corriere della Sera mi hanno affascinato. Pasolini aveva doti di profeta, previde cose che poi sono successe, nella società e nella politica. E poi ha previsto Internet. Il mondo interconnesso».
A lei è mai accaduto di innamorarsi di un uomo?
«La maggior parte delle persone non risponderebbe a questa domanda, ma mi dico in fondo che importa... La risposta è: mai. Non dal punto di vista sessuale».
Lei è stato Gesù ma è stato anche Goblin, ed è stato l’uomo che tradisce il paziente inglese. Hollywood ci ha abituato ai caratteri; lei può essere sia buono sia cattivo. Come fa?
«Cerco di lavorare in film di genere diverso, che richiedono performance diverse. È come un esercizio che coinvolge muscoli diversi. L’industria cinematografica si aspetta sempre lo stesso, ma ci sono varie opportunità, magari in film minori; così si possono fare cose mai fatte prima».
È vero che Michael Cimino la fece licenziare dal set de I cancelli del cielo perché lei aveva riso?
«Verissimo. Ma poi mi ha chiesto di lavorare in un altro film, quindi non mi ha serbato rancore. Credo fosse in un momento di stress. Per me non era in gioco quanto era in gioco per lui. Ero lì, sul set, giovane, me ne stavo seduto da solo, qualcuno mi ha raccontato una barzelletta, io ho riso, e per lui è stato pesante. Dunque, lo perdono! (Dafoe ride)».
Lei è stato anche uno straordinario Van Gogh. Pareva quasi che vi assomigliaste, anche nei colori. È vero che ha imparato a dipingere?
«Ho dovuto, perché spesso giravamo in tempo reale. In una sequenza mi si vede mentre dipingo delle scarpe. Ero spaventato, ma al contempo era stimolante. Ho avuto un buon maestro...».
Il regista, Julian Schnabel, uno dei più importanti artisti viventi.
«Mi ha insegnato a vedere, a dipingere: dipingere gli oggetti come li vedevo, a dipingere la luce, il colore. A lungo, in quella sequenza, le scarpe erano orrende. Ma all’improvviso, un paio di pennellate ed ecco, era nato qualcosa. Julian ha davvero influenzato il mio modo di guardare. Cosa c’è qui davanti a noi?».
Un ulivo.
«In passato anche per me quello sarebbe stato solo un ulivo; ma ora, come conseguenza di quell’esperienza, vedo colore e forma. Ora mi posso liberare dall’obbligo di pensare a un ulivo. Quando si guardano così gli elementi, si è aiutati a vederne il posto nel mondo, e a vedere il proprio posto nel mondo. E questo si mette in relazione con il mio impulso, con quello che farò a Venezia: tornare ai fondamentali, tornare al cuore pulsante del teatro».
Noi europei fatichiamo a comprendere l’America di Trump. Ci aiuta?
«Oh, mio Dio! Non voglio parlare di lui. La stampa ne parla già troppo».
Non vuole dirmi neppure se Biden si deve ritirare?
«Penso che vederlo fare fatica ci renda coscienti della situazione. I numeri e le statistiche parlano da soli, e ci dicono che Biden è stato un ottimo presidente. Ha riparato i danni fatti da Trump, non solo nell’economia; penso al clima che si respira nel Paese. Per questo ora ci sono molte preoccupazioni in America».
E del governo italiano cosa pensa?
«Leggo i giornali italiani, ma salto le prime otto pagine, perché la vostra politica è complicata. Per un americano, abituato a un sistema fondato su due partiti, l’idea delle coalizioni, delle maggioranze, dei governi che cadono facilmente, è difficile da comprendere».
È vero che si è sentito un po’ più italiano quando ha cominciato a pensare, come prima cosa al mattino, quel che avrebbe mangiato durante il giorno?
«È vero. Ci sono cose in cui sto diventando italiano. Questa è una».
È vegetariano?
«Ogni tanto mangio pesce, mai carne, per motivi ambientali, etici e di salute. Ma non mi piace parlarne. Lasciamo fare alle persone quel che desiderano. Non voglio dire alla gente che cosa fare. Si può soltanto essere d’esempio, e la gente può seguirlo o meno».
È vero che andava a messa con la nonna di sua moglie, Lucia?
«C’era il pranzo della domenica e nonna (Dafoe dice “nonna” in italiano) chiedeva chi volesse andare a messa con lei. Tutti si nascondevano o avevano da fare. A me invece piaceva. La religione organizzata ha qualche problema, ma mi piace andare in luoghi dove le persone si ritrovano per una sorta di speranza, di ordine, di comunione. Mi piace per l’architettura, per la storia, per il rito. E questo rendeva la nonna felice. In più era una leonessa, e non volevo farla arrabbiare!».
Crede in Dio?
«Ah ah... Abbiamo bisogno di una definizione di Dio».
Per sperare nella vita eterna non basta un Dio generico, serve un Dio misericordioso, che si pieghi sul solco e si occupi di noi.
«Io penso che il lavoro di Dio sulla terra debba essere il nostro. Sta a noi trovare i collegamenti tra le cose. Per me è più facile farlo tramite la natura. Leggo molto di spiritualità, in varie forme e di varie religione. Mi piace l’impulso a trovare un senso nelle cose. Vengo da una famiglia cristiana, protestante, ma non sono affiliato a una religione particolare. Mi piacciono scrittori, filosofi. la mia migliore insegnante, quel che più mi avvicina alla comprensione spirituale, all’unione, alla pace, è Madre Natura».
Come immagina l’aldilà?
«Si nasce, si lascia la propria casa, si vivono ascese e discese, e poi si ritorna. Siamo in un oceano: l’onda si forma, si innalza, ridiscende, si posa, e torna a far parte dell’oceano».
A Roma lei vive nello stesso quartiere di Garrone e Sorrentino. Dal punto di vista artistico, a chi si sente più vicino?
«Mi piacciono entrambi, non ne scelgo uno soltanto. Sono diversi. Glielo dirò dopo aver lavorato con loro».
Uno guarda a Fellini, l’altro a Pasolini.
«Se lei vede i miei film, allora può decidere quale dei due».
Quali sono i film della sua vita?
«Non posso scegliere. Altrimenti mi crocifiggeranno, e mi chiederanno di parlarne in tutte le prossime interviste. Non ho film preferiti. Mi limiterebbe, non mi aiuta».
Non i preferiti; i film che hanno fatto di lei l’uomo che è.
«Allora sta parlando di tutti i film che ho fatto: sono oltre 150...».
Non i suoi film, altri film.
«L’unica cosa che posso dirle è che quando ero davvero giovanissimo ho visto Via col vento due volte di seguito».