Corriere della Sera, 9 luglio 2024
La figlia della Nobel Munro: «Il mio patrigno mi molestò Mia madre restò con lui»
«Per tutta la vita, ho avuto paura che mi avresti incolpato per quello che era successo».
La figlia di una grande amatissima scrittrice tradotta in tutto il mondo e seria candidata al premio Nobel – che alla fine vincerà, acclamata all’unanimità da critici e lettori – scrive alla madre. Le confessa che il patrigno la molestò, per anni, da quando lei ne aveva nove. La grande scrittrice ignora la lettera, e non soltanto non denuncia il marito e non lo lascia, ma resta con lui fino alla fine, quando lui morirà ultraottantenne dopo essersi dichiarato colpevole degli abusi. La storia resta segreta fino a qualche settimana dopo la morte della grande scrittrice, quando la figlia scrive un lungo, devastante, circostanziato articolo per un giornale.
Gli ingredienti per una di quelle sconvolgenti storie di Alice Munro – morta lo scorso 13 maggio a 92 anni – che hanno cambiato il nostro modo di vedere il racconto breve – l’assoluta precisione e profondità delle descrizioni, la capacità di rinchiudere in poche pagine l’intero universo di un romanzo ottocentesco tradizionale – ci sono tutti.
Le dinamiche familiari malate che assumono una loro tragica inevitabilità. La madre che preferisce lo status e la tranquillità del secondo matrimonio al peso terribile della verità, e si rifugia nelle lacrime e nelle recriminazioni ogni volta che la figlia le ricorda quel che è successo. Il secondo marito mostruoso nella sua banalità che ammette di essere come Humbert Humbert, il pedofilo del romanzo Lolita, «se non faccio attenzione». La sorda impotenza del padre della ragazza, il primo marito, che viene informato di tutto dopo la prima estate di molestie e sceglie di non fare nulla, rimandando la bambina nella casa degli abusi l’estate successiva, abusi che continueranno per cinque anni (Humbert nel romanzo ammette di essere interessato soltanto alle «ninfette», dai nove ai quattordici anni).
Però non è una storia della vincitrice del Nobel Alice Munro. È la sua vita.
Scoperchiata l’altro giorno nel domenicale del Toronto Star – glorioso giornale canadese per il quale lavorò come cronista il giovane Hemingway – da Andrea Robin Skinner, 58 anni, la figlia più giovane di Alice Munro e del primo marito Jim Munro.
La vita di Skinner è stata demolita, ovviamente, dagli abusi e dal silenzio materno: bulimia, emicranie, insonnia la tormentano dalla notte in cui il patrigno Gerald Fremlin entrò nel suo letto (e in una serie di missive scritte anni dopo e ora pubblicate dal Sun, molto difficili da leggere senza provare nausea, «Gerry» ammise, ma incolpò la bambina di tutto).
Così Andrea Robin Skinner ha raccontato la verità – i fatti non sono in discussione, nel 2005 si rivolse alla polizia e il patrigno fu condannato a due anni di libertà vigilata, senza carcere, per l’età avanzata – sulla sua vita da sacrificio umano sull’altare della rispettabilità borghese e letteraria e della bella casa di campagna vittoriana. Detonando un ordigno nucleare nel cuore della storia, che pareva bellissima, della casalinga canadese con tre figlie che scrive di nascosto nella cameretta di casa adibita a lavanderia/stireria e diventa una delle più grandi scrittrici del suo tempo.
Scrive Skinner: «Mi disse che le era stato detto “troppo tardi”,... e che lo amava troppo, e che la colpa era della nostra cultura misogina se mi aspettavo che lei negasse i propri bisogni, si sacrificasse per i suoi figli e rimediasse ai fallimenti degli uomini. Era fermamente convinta che qualunque cosa fosse accaduta, era tra me e il mio patrigno. Non aveva niente a che fare con lei».