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 2024  luglio 08 Lunedì calendario

“PAVAROTTI MI CONFESSÒ CHE NON SAPEVA LEGGERE LA MUSICA” - VALERIO CAPPELLI RACCONTA IL SEGRETO DI “BIG LUCIANO”: “MI DISSE: NIENTE SPARTITI, NELLA MUSICA MI AIUTO CON FOGLIETTI E QUADERNONI. QUANDO SE NE ACCORSE VITTORIO GASSMAN DISSE: ‘MAI LO AVREI PENSATO. VA A ORECCHIO MA NON SBAGLIA UNA NOTA’" - UNA VOLTA AL RISTORANTE LUCIANO MANGIÒ 25 PORTATE DI PASTA, ARRIVÒ A PESARE 160 CHILI E UNA VOLTA FU RICOVERATO... -

Luciano Pavarotti dapprima imprecò, e sembrò davvero uno dei suoi do di petto, col quel timbro che stordiva nello squillo. Stritolò il fazzoletto bianco che portava sempre con sé come un amuleto. Lo guardai e pensai, adesso questo genio di modenese ruspante grande e grosso mi fa fuori. Ero nel suo camerino. Lui improvvisamente ebbe un lampo, si trasfigurò e mormorò, «ma sì, dài avvicinati che ti racconto questo segreto...». Si alzò in piedi e cominciò a parlare.

(...) Le 25 portate Sono stati veri amici, Leone lo ricorda gioioso, semplice, epicureo, parlavano delle grandi passioni comuni, musica, calcio e cibo e una volta al ristorante Luciano arrivò a mangiare 25 portate di pasta, arrivò a pesare 160 chili e una volta fu ricoverato. Perciò l’unico che non si sorprese della mia sorpresa e di quella di Vittorio Gassman — e presto spiegherò cosa c’entrasse lui in questa storia —, fu Leone Magiera. E la sorpresa era che la voce del ‘900 non sapeva leggere la musica.

Quando me ne accorsi, Pavarotti (che venne a mancare nel 2007) dopo l’imprecazione con un misto di istinto e saggezza contadina sussurrò fra sé, «ma sì, così la mia storia si umanizza e la gente si può identificare in me». Il giorno dopo, il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina il mio articolo intitolato: Pavarotti, «Sì, io non leggo la musica». Con Gassman Il 18 luglio 1997 a Città di Castello si tenne uno strano spettacolo. Erano protagonisti due monumenti come Pavarotti e Gassman. La particolarità era che, per un tratto, i due si scambiavano i mestieri.

Luciano recitava e Vittorio cantava. Il cuore della serata era nello scoprire alcuni fili di coincidenza tematica, come quando Luciano cantava E lucevan le stelle e Vittorio recitava Io non vorrei crepare di Boris Vian. C’è, in entrambe, il rimpianto della vita.

Un segreto Quello spettacolo celava il grande segreto del tenore del secolo: «Niente spartiti, nella musica mi aiuto con foglietti e quadernoni». A Città di Castello arrivai in anticipo. Così andai a vedere le prove dello spettacolo. Mi accorsi che Pavarotti aveva davanti a sé il gobbo televisivo, un quadernone con le parole delle arie.

Mi avvicinai silenziosamente a Gassman, che era seduto in platea. Eravamo in confidenza, per il Corriere ero il «gassmanologo», non solo lo intervistavo ma, essendo lui anche un illustre collaboratore, curavo il suo rapporto col giornale per i problemi pratici, insomma gli facevo anche un po’ da assistente.

Quando mi avvicinai, Vittorio capì ed espresse la sua sorpresa nel vedere il grande tenore alle prese con il quadernone, e allargando le braccia esclamò: «Mai lo avrei pensato». Poi aggiunse: «Va a orecchio ma non sbaglia una nota, grazie al talento, la disciplina, la feroce forza di volontà, abbiamo uno dei più bei timbri che ci siano mai stati».

I due erano amici, si erano conosciuti al torneo di tennis che Ugo Tognazzi organizzava a Torvajanica.

Io continuavo a essere incredulo. Magari era stato un abbaglio. Volevo conferme. Così dopo essere andato da Gassman mi rivolsi a Leone Magiera, che da oltre quarant’anni accompagnava al piano Pavarotti. Gli chiesi lumi su quel segreto che stava a poco a poco venendo alla luce; ci rispose che Luciano e Mirella non conoscevano le note ma avevano una voce magnifica, che il cantante deve avere buon orecchio, che erano stati un po’ pigri da adolescenti eppure avevano costruito una carriera straordinaria.

E tornai a richiederglielo per una intervista su queste pagine, e lui aggiunse che Luciano «non conoscendo la musica aveva problemi ritmici, faceva fatica ad andare a tempo», e così a lui e alla sua prima moglie Mirella insegnava le opere frase per frase, «andavano a memoria». Insomma, l’indiscrezione trovò conferma da chi Luciano lo conosceva bene.



Che cosa fare? A quel punto chiamai il direttore Ferruccio de Bortoli. Come prima cosa mi disse che avrebbe assunto informazioni da Paolo Isotta. Il critico disse al direttore che nell’ambiente musicale lo sapevano tutti. De Bortoli gli obiettò: ma qualcuno lo ha mai scritto? No, ammise Isotta. Allora, fu la risposta del direttore, per me la notizia è inedita. A quel punto mi richiamò, ricordo le sue testuali parole: «Senti Valerio, non ho alcuna intenzione di affrontare una causa milionaria con Pavarotti. Questa notizia o te la conferma lui o non la pubblico». Cosa fare? Non volevo gettare la spugna.

Il problema era che Pavarotti mi aveva già dato l’intervista. Con la scusa di un piccolo aggiornamento bussai nuovamente al suo camerino. C’era poco da girare intorno, in qualche modo trovai le parole. E lui lanciò l’imprecazione. Ma subito dopo ebbe l’intuizione che, confessando il suo segreto, chiunque sarebbe (in teoria) potuto diventare Luciano Pavarotti.

In camerino Così, circondato da mille leccornie e doni ricevuti in camerino ci disse: «Caro mio, io non sono un musicista, non vado in profondità. Lo spartito è un discorso, la parte del canto è un’altra. Se hai in mente la musica e la canti col corpo, è fatta; altrimenti, è solfeggio cantato. Io non sono un musicista come Domingo, che ogni tanto dirige un’orchestra». E la tecnica, azzardai? «La tecnica del canto che ho io, l’ho affinata attraverso anni di pazienza. Le basi me le ha date Arrigo Pola».

I quadernoni, Luciano li chiamava, in inglese, idiot’s cards . Luciano era spiritoso anche con se stesso, amava prendersi in giro. Con la sua grafia, a mano annotava segni chironomici, ascendenti o discendenti, secondo la linea melodica, ci spiegò Magiera.

Chiesi a Pavarotti se non conoscere lo spartito fosse un handicap, e lui: «Il cantante ha meno da fare del direttore. C’è la partitura dell’orchestra e c’è lo spartito per canto e piano. Io, nei recital, mi servo del quadernone che lei ha visto, dove annoto le parole: le parole puoi dimenticarle, la musica no. Devi mandarla tutta a memoria».

La fantasia Riandammo, ancora sbalorditi, da Magiera che aggiunse: «Il cantante non deve fare polifonia, la linea melodica della voce non è così complicata. Se hai orecchio, il talento lo perfezioni con un pianista». Eppure, maestro... «Sì, può essere un fatto misterioso. Ma non era così infrequente negli anni ’50 e ’60. Sa cosa diceva Campogalliani quando dirigeva la scuola della Scala? Piuttosto che conoscerla male, la musica è meglio non conoscerla affatto: un insegnante fatica meno».

(…)